Lightbox Effect

slope snow fog suggestion - Testa dei Frà 2818 mt.


"GLI SPETTACOLARI" Cerro Torre


Il Cerro Torre è una delle più spettacolari cime del Campo de Hielo Sur; è situato in una regione contesa fra Argentina e Cile, a ovest del Cerro Chaltén (o Fitz Roy).

La vetta del Cerro Torre è considerata fra le più inaccessibili del mondo perché, qualunque via si scelga, bisogna affrontare almeno 800 metri di parete granitica, per arrivare ad una cima perennemente ricoperta da un "fungo" di ghiaccio. Inoltre le condizione climatiche e meteorologiche della regione sono particolarmente sfavorevoli.


Negli anni cinquanta vi furono diversi tentativi di salita al Cerro Torre. In particolare, nel1958 due spedizioni italo-argentine tentarono la salita contemporaneamente ed in maniera indipendente tra di loro. Una era guidata da Cesare Maestri, l'altra da Walter Bonatti eCarlo Mauri. Entrambe dovettero rinunciare all'impresa per motivi logistici. Nel 1959, Bonatti e Mauri avevano preventivato un secondo tentativo, ma abbandonarono prima ancora di partire quando seppero che un'altra spedizione italiana, sempre guidata da Maestri, era partita prima di loro

La spedizione di Cesare Maestri comprendeva anche il ghiacciatore austriaco Toni Eggere Cesarino Fava. Maestri ed Egger partirono all'assalto della vetta, mentre Fava rimase al campo per supporto. Dopo una settimana Maestri fu ritrovato in stato confusionale, e raccontò a Cesarino Fava di aver raggiunto la vetta il 31 gennaio insieme ad Egger, che era poi caduto durante la discesa portando con sé la macchina fotografica e quindi le prove del successo.

La vicenda diede vita a numerose polemiche. Molte spedizioni tentarono di ripetere l'itinerario descritto da Maestri, ma senza riuscirvi; i resoconti riportavano da un lato notevoli discrepanze tra le descrizioni di Maestri e le caratteristiche effettivamente riscontrate sulle pareti, dall'altro la mancanza di tracce riscontrate del passaggio della prima spedizione.

Maestri tornò ad affrontare il Cerro Torre nel 1970 insieme ad Ezio Alimonta, Daniele Angeli, Claudio Baldessarri, Carlo Claus e Pietro Vidi. La cordata salì per una nuova via, lungo la parete Sud-Est, portando con sé un martello compressore, con il quale Maestri attrezzò circa 350 m di parete con chiodi ad espansione; Maestri giunse fino al termine della parete rocciosa, ma non salì il fungo di ghiaccio terminale della montagna; più tardi Maestri affermò che il fungo terminale "non fa veramente parte della montagna".Durante la discesa Maestri, in un gesto di sfida, spaccò i chiodi piantati e lasciò appeso il compressore all'ultimo chiodo, cento metri sotto la cima. La via del compressore (detta anche via Maestri o Compressor route) fu ripercorsa nel 1979 dall'americano Jim Bridwellche riscontrò che i chiodi lasciati dalla spedizione del 1970 s'interrompono a 30 metri dalla cima, appunto sotto il fungo terminale.

Nel 2005 Ermanno Salvaterra, uno dei maggiori conoscitori del Torre e il primo a scalarlo d'inverno (nel luglio 1985), fino ad allora sostenitore di Maestri, ripercorse la via del '59 insieme a Rolando Garibotti e riuscì a raggiungere la cima. Non trovò tracce di un precedente passaggio e scoprì che la via segue un tragitto diverso da quello che per anni aveva descritto Maestri.

La prima ascensione indiscussa del Cerro Torre è quella compiuta il 13 gennaio 1974 da una spedizione del gruppo dei Ragni di Lecco; in quell'occasione giunsero in vetta Daniele Chiappa, Mario Conti, Casimiro Ferrari e Pino Negri


gruppo del GII - notte a 6500 + making water


Si.. siamo acclimatati. Moro e Urubko: il summit si avvicina

Saltando il crepaccio (Photo courtesy www.simonemoro.com)

Saltando il crepaccio (Photo courtesyWWW.SIMONEMORO.COM)

ISLAMABAD, Pakistan — Preludio alla vetta per Simone Moro e Denis Urubko, impegnati nel tentativo di prima invernale al Gasherbrum II, 8.035 metri, in Karakorum. La coppia di fuoriclasse, insieme a Cory Richards, è salita in questi giorni sulla parete per installare il secondo campo alto. “Siamo stanchi morti ma pronti per la cima” ha detto Moro al rientro al campo base. E ora scatta il conto alla rovescia: la prossima volta, sarà quella decisiva.

“Abbiamo raggiunto e dormito a 6500 metri – racconta Moro -. Abbiamo incontrato grosse difficoltà ad arrivare a quella quota, da campo 1 abbiamo impiegato 2 giorni, con un bivacco a 6250 metri in tenda. La parete è molto verticale e tutta ghiacciata con tante cornici di neve, come si vedeva da sotto. Avevamo solo una corda e ce la siamo dovuta cavare anche mettendo insieme anche spezzoni di vecchie corde. Ma siamo riusciti a salire e abbiamo completato l’ultima fase di acclimatamento prima di tentare la vetta”.

Cory - aspettando in sosta (Photo courtesy www.simonemoro.com).jpg

Cory - aspettando in sosta (Photo courtesy

Moro parla di temperature ancor più rigide di quelle avute nella salita precedente: il record sono stati 46 gradi sottozero ieri notte. Ma grazie a quest’ultima fatica, la strada per la cima sembra ormai aperta. “Stiamo benissimo, ormai fuoi dalle difficoltà tecniche – dice l’alpinista. Sopra la neve sembra dura, quello farà la differenza. Noi a 6500 metri abbiamo dormito benissimo e ci sentiamo pronti a tentare la cima la prossima volta. Sul Makalu io e Denis avevamo dormito a 6800… ed il Makalu è quasi 8500 metri mentre qui la vetta è a 8.035″.

Il gruppo è rientrato al campo base stamattina e ora attende solo il “via libera” del meteorologo Karl Gabl per il tentativo di cima. La strategia è già definita.

“Saliremo a campo 1 e campo 2 – spiega Moro -, poi sposteremo la tenda a 7000 metri, campo 3, e il quarto giorno partiremo per la cima. Ora ci aspettano 4 o 5 giorni di riposo. Servirà una finestra di bel tempo lunga? “No – rassicura l’alpinista – basta che facia bello il giorno della vetta. Partiremo anche col brutto tempo. Il problema che abbiamo davvero incontrato sono le difficoltà tecniche per arrivare a campo 3 e le difficoltà muscolari a battere la traccia”. (vedi foto in basso)

Avanti, dunque, l’obiettivo si avvicina.

Nel frattempo, al campo base è atteso il team che proverà la prima invernale al GI. “Tra 5 giorni dovrebbero arrivare anche Alex e Gerfried – racconta Moro -, con il canadese Qebeg, per il loro tentativo al GI. Oggi ho mandato a controllare il materiale che hanno inviato qui 4 mesi fa e c’è molta roba sparita e deperita: li ho già avisati per satellitare, spero che il materiale personale sia intatto, come sembra. Devo considerare che alla fine, rinunciando all’elicottero, non si risparmia e si inquina di più. Un’ora di elicottero brucia molto meno kerosene di 15 giorni di trekking di 250 portatori. In estate è giusto ricorrere ai portatori, ma d’inverno li torturi, per loro è un calvario e per l’ambiente non è assolutamente un vantaggio”.



Christian Core apre Raptor a Varazze


GII, neve alla cintola e 43 gradi sottozero. Moro racconta

GII, dopo una giornata di duro lavoro (Photo courtesy www.simonemoro.com)

GII, dopo una giornata di duro lavoro WWW.SIMONEMORO.COM

ISLAMABAD, Pakistan — “E’ dura quest’anno. Il freddo è davvero bastardo Abbiamo passato due notti orrende in quota, una a -43 gradi e l’altra a -40″. Ecco il racconto di Simone Moro dal Gasherbrum II, nel cuore del Karakorum. L’alpinista è appena rientrato al campo base dopo aver installato e dormito a campo 1, quota 6000 metri, insieme al compagno kazako Denis Urubko.

“Dormivamo con la tuta d’alta quota dentro il sacco a pelo – prosegue Moro -. Nonostante questo avevamo i piedi ghiacciati. Ce li siamo massaggiati per un bel po’. E’ dura. ora siamo rientrati perchè Karl Gabl ha previsto brutto per tre giorni, poi dovrebbe tornare il sereno ma purtroppo si prevede ancora piu freddo. Parliamo di 56 gradi sottozero sulla cima del GII: e c’è da fidarsi di quello che dice Gabl, perchè le sue stime sono basate sulla triangolazione di palloni aerostatici attorno alla cima della montagna”.
Nella foto d’apertura, fresca di giornata, potete vedere Simone Moro a campo 1. Nei giorni scorsi i due alpinisti lo hanno spostato a quota 6000 alzandolo di 250 metri di dislivello: “Ci sono volute 8 ore di lavoro” dice Moro. Stamattina hanno invece tentato di raggiungere campo due, che si prevede a circa 6.500 metri. Le condizioni impraticabili li hanno però costretti a fare dietrofront e a rimandare alla prossima salita l’installazione del campo.
“Avevamo neve fino alla pancia – racconta Moro -. Pensavamo di arrivare a campo 2 ma abbiamo dovuto letteralmente scavare una trincea: da panico. Tra l’altro i crepacci erano tutti coperti: sono infiniti e sono enormi. Sentivamo fortissimi “wuuum” al nostro passaggio… ci siamo davvero raccomandati lassù per tornare indietro sani e salvi”.
L’alpinista bergamasco, però, è ottimista. “Ora la via più pallosa e pericolosa è aperta – spiega Moro -. Abbiamo segnato il percorso con 100 bacchette di bambu, e ne abbiamo preparate altre grazie all’aiuto dei militari. Abbiamo fatto un lavoro mostruoso, chi arriverà al GI tra un paio di settimane ci dovrà davvero ringraziare… qui è un po’ come l’Everest, diverso dal Broad Peak: la parte peggiore è all’inizio. C’è una specie di icefall da superare, dopo trovi accumuli di neve come zucchero. Mi sa che queste condizioni rimarranno finchè tenteremo la cima. Ma devo dire che nella traccia, alla fine, si camminava bene”.
Simone Moro, Denis Urubko e Cory Richards, i protagonisti di questo tentativo di prima invernale al GII (8.035 metri), sono al campo base del GII da ormai una settimana. In quota, ora, sono saliti solo Moro e Urubko perchè Richards è stato fermato al campo base da qualche malessere.


Neve alta, cercando crepacci (Photo courtesy www.simonemoro.com)


Denis dopo prima notte a -40 (Photo courtesy www.simonemoro.com)

Gioia 8c+ (Varazze)

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"Hiking on rind" - ascesa Colle Sià - 2274 mt.

Era un sabato qualunque di una settimana qualunque di gennaio. Ero a lavorare quando suona il telefono...un messaggio...Carlo mi dice:”Colle Sià 2274 mt meteo perfetto fondo crosta”. Non importa, non aspettavo altro, daltronde sarebbe stata la mia prima volta. Avevo passato le ultime settimane a prepararmi, compra le ciaspole, cerca le ghette, maglia termica e tutto il necessario...adesso non potevo tirarmi indietro. 22 gennaio, ore 6:00, si parte. Alle 8:00 siamo gia a Ceresole Reale di fronte al bar, apriamo noi, caffè, “bagno”, sigaretta, pronti. 9:15 inizia la mia prima, agognata ciaspolata, il primo tratto è brutto c'è poca neve se così si può chiamare quel sottile strato di ghiaccio che con 12 gradi sotto lo zero scricchiola sotto i nostri piedi. Partiamo come due muli a testa bassa tanta è la voglia, Carlo già avvezzo e io che scalpito, entrambi vogliamo la cima, siamo qui per questo. Fatto stà che dopo 40 minuti di camminata ci accorgiamo di qualcosa che non và...abbiamo saltato un bivio, cazzo, che si fa? Torniamo indietro e si ricomincia da capo, decidiamo di chiamarlo “riscaldamento”...sapevo gia che me ne sarei pentito.Presa la strada giusta il sentiero sale tra un bosco che via via si và diradando fino a che arriviamo in vista di Cà Bianca dove scompaiono gli alberi e il paesaggio comincia a farsi interessante. In poco siamo passati dalla quota di partenza di 1530 mt ai 2000, da qui si vede tutto lo splendore della Valle dell'Orco ed il meteo come da previsioni è dalla nostra, la luna che fino a poco tempo prima ci aveva accompagnato ha lasciato il posto ad un sole stupendo e ad un cielo che così azzurro non lo vedevo da parecchio. Qui comincia, per me, il difficile, perchè la strada comincia a salire con decisione e noi facciamo un classico “taglione” proprio attraverso una bella distesa di neve immacolata non curandoci del più comodo sentiero. Fino a quel momento avevo sognato la mia prima volta tra metri di neve fresca e farinosa ma lì ho capito che senza una buona preparazione non si va da nessuna parte e allora ben venga la crosta, che almeno mi permette di procedere senza troppi intoppi. Dopo una breve sosta a base di cioccolatini e the caldo ripartiamo per l'ultimo tratto che ci divide dalla meta e qui maledico il nostro “riscaldamento”. Le gambe cominciano a fare troppa fatica e allora mi riempo i polmoni di quell'aria tersa, fredda, preziosa e mi continuo a ripetere che ormai manca poco e anche se ogni passo mi costa fatica e dolore devo raggiungere la vetta. Carlo sta gia facendo amicizia con due altri fantastici signori che come noi si erano spinti fino a lì. E' subito sintonia, deve essere l'ambiente che ti porta a sentirti amico, fratello come dire:” se c'è bisogno non ci si tira indietro”. Dopo un frugale pasto si riparte per il rientro che, nonostante i crampi che minacciano le mie gambe, viene divorato in poco più di un'ora e solo arrivati alla macchina ci concediamo una bella pausa ancora a base di the caldo e sigaretta che sembra meritatissima....Fantastico, ne è valsa la pena, due giorni di male alle gambe per quel paesaggio e per quella sensazione di libertà ci stanno, anzi, ora non vedo l'ora di cominciare ad allenarmi per poter rifare questa esperienza il più presto possibile, con Carlo naturalmente che ringrazio per avermi fatto conoscere questo mondo, anche se in realtà la scalata non era delle più difficili sogno gia una nuova vetta da raggiungere in sua compagnia, perchè la montagna può essere severa e punirti al minimo errore ma l'importante è affrontarla con un amico al tuo fianco.

Bafio.




mano di Yuri Gadenz al Bishop



Chris Sharma libera Power inverter

LLEIDA, Spagna — Chris Sharma ha liberato “Power inverter” nella strapiombante falesia di Oliana, in Spagna. Si tratta di una via molto difficile, valutata di grado 9a+: un altro straordinario colpo ai limiti del possibile quindi, per il fortissimo climber americano.

“Power inverter”, aperta e liberata il 18 dicembre, è infatti il terzo obiettivo raggiunto da Sharma ad Oliana, un altro 9a+ che segue quelli di “Papichulo” e “Pachamama”. Tre vie tra le più difficili e belle al mondo secondo gli esperti, un curriculum sempre più ricco per il climber americano, ex enfant prodige dell’arrampicata.

Per lo spagnolo Dani Andrada, amico di Sharma, “Power inverter”, è una via grandiosa al di là del grado. “Ho già provato – scrive sul suo blog da cui dà notizia della salita – e potrebbe essere uno dei miei progetti per l’anno prossimo”.


Sonnie Trotter on Evilution - Buttermilks - USA


Lonnie Dupre tenta invernale in solitaria al McKinley

ANCHORAGE, Alaska — Il McKinley, 6.194 metri, in gennaio e in solitaria. Sfida impossibile? Finora lo è stata. Ma in questo momento c’è un alpinista americano che sta procedendo spedito verso questo ambizioso obiettivo: si tratta di Lonnie Dupre, un esploratore polare del Minnesota con 25 anni di esperienza nella regione artica.

Dupre sta attraversando con gli sci e la sua slitta il Kahiltna Glacier. Secondo quanto riferito dal suo sito sabato, decimo giorno di cammino, è arrivato a quota 5000 metri, superando il Windy Corner e affrontando temperature vicino a 40 gradi sottozero. Ogni notte scava una truna nella neve per ripararsi dal freddo e dal vento gelido e per riposarsi durante l’acclimatamento.
“Man mano che sale la neve diventa ghiaccio – si legge sul suo sito – e lo scavo delle trune è sempre più difficile. Per l’ultima, ci sono volute 3 ore di lavoro”.
Dupre conta di tentare la cima entro la fine di gennaio. Ha scelto la data di partenza in base a precise previsioni meteorologiche che vedevano il sussistere dell’alta pressione nella zona per diversi giorni e il suo obiettivo è proprio quello di approfittarne.
Con lui ha una slitta carica di cibo e materiali, che trascina attaccata ad una scala d’alluminio per facilitare l’attraversamento dei crepacci. Dupre si è portato anche dei bastoncini di bamboo per segnare il percorso di salita e facilitarsi così la discesa dalla cima.
Nella storia, solo tre alpinisti russi sono riusciti a salire il gigante nordamericano nel mese di gennaio: sin tratta di Artur Testov, Vladimir Ananich e Alex Nikiforov, nel 1998. Le salite invernali di successo alla montagna sono state in totale 16: molti di più i tentativi, tra cui si contano, purtroppo, anche diversi tragici incidenti.
Dupre, 49 anni, ha percorso nella sua carriera oltre 25mila chilometri attraverso l’Artico con sci, cani da slitta e kayak, partecipando a spedizioni storiche e su lunghissime distanze. Con John Hoelscher, è stato il primo a circumnavigare la Groenlandia.

Andrada relax

Daniel Andrada in relax
Ali Hulk 9b





aperte le iscrizioni al MELLOBLOCCO 2011


MELLOBLOCCO 2011
Val Masino - Val di Mello 5-8 maggio 2011

Iscriviti

CRASH PAD


Sulle spalle dei boulderisti, un attrezzo s'aggira per i massi d'Italia e del mondo: è il Crash pad. E proprio lui: il… "materasso". Un inseparabile compagno, ormai entrato stabilmente - con scarpette, sacchetto di magnesite e tappettino - nel "bagaglio" di moltissimi fanatici del boulder.

Diciamo subito che la sua caratteristica principale è di essere un ottimo amico. La sua funzione, infatti, è quella di attutire tutte quelle piccole-grandi, ma soprattutto ripetute, cadute frutto del corteggiamento a quei blocchi (per definizione la maggioranza) che non vogliono proprio saperne di farsi salire. Insomma, con i dovuti distinguo, si tratta un po' della corda del boulderista. Un attrezzo che oltre a proteggerci ci consente di spingere più in alto i nostri limiti, e di "osare" di più. Anche se è bene ricordare che il buon Crash pad non rende invulnerabili, e che un affidabile spotter, ovvero un ottimo "paratore" (…anzi, meglio più di uno!), è indispensabile sui massi più esposti ed impegnativi.

Fai la scelta giusta
Avrete già capito che lunghezza, larghezza, spessore e tipo di materiali sono le caratteristiche più importanti, proprio da loro infatti dipendono le performance del nostro crash pad. Quindi prima di tutto occhio alla “taglia”, senza dimenticare però la qualità dei materiali. Insomma è chiaro che ad un maggior spessore dell'espanso corrisponde una più alta protezione, ma che uguale importanza riveste il numero e modulazione della densità dei vari strati.
Altra caratteristica importante è il numero di sezioni, solitamente due o tre, in cui il crash pad si chiude. Le differenze tra queste due tipologie, sono una maggiore trasportabilità ed adattabilità al fondo a favore della chiusura in 3 sezioni ed una maggiore stabilità per il due sezioni.

Consigli per l'acquisto
Oltre a quanto già detto ecco altri particolari importanti da tener presenti al momento dell'acquisto del vostro crash pad. Prima di tutto il rivestimento che, come detto, deve essere necessariamente molto robusto per resistere alle sollecitazioni e all'abrasione del terreno. Inoltre, occorre controllate che lo strato esterno sia dotato di prese d’aria, per evitare che “esploda”, come un palloncino, al momento dell’impatto.
Il sistema di chiusura per il trasporto è un altro particolare da osservare. Può essere, a seconda dei gusti, a fibbia o a strappo ma in entrambi i casi deve essere di facile e veloce utilizzo, ed assicurare che il materasso non si apra durante gli spostamenti tra un masso e l’altro, anche nelle situazioni più disagevoli.


Crash pad e l'arte della manutenzione del materasso
Normalmente è possibile rimuovere lo strato interno di schiuma dal crash pad e lavarne il tessuto. Questa operazione è consigliata soprattutto per quei materassi che sono protetti da un tessuto in nylon non spalmato. Nel tempo, infatti, sporcizia, polvere e piccoli cristalli di roccia possono danneggiare il rivestimento esterno e di conseguenza anche l’imbottitura.

Chakung: asesa fallita per Bonino e Meli

Enrico Bonino e Nicolas Meli

Enrico Bonino e Nicolas Meli

AOSTA — “Ci siamo resi conto che in Himalaya anche per tentare i “non 8000”, non bastano le capacità tecniche e l’esperienza acquisita nelle Alpi. E’ un gioco tutto nuovo da imparare, dove contano molto l’esperienza locale e la strategia”. Ecco il commento delle guide alpine valdostane Enrico Bonino e Nicolas Meli, che sono rientrati dalla loro spedizione himalayana con un nulla di fatto. I due volevano aprire una via nuova sul Chakung, 7.036 metri, nella valle del Khumbu, in stile alpino. Ma problemi di quota e forse di logistica hanno impedito loro di raggiungere l’obiettivo: ecco il loro racconto.

Bonino, 29 anni, e Meli, 31, erano partiti dall’Italia il 16 novembre con l’ambizioso obiettivo della via nuova in stile alpino sul Chakung. Prima, però, si sono diretti con una cliente verso il Nireka, vetta di 6.200 metri individuata come salita di acclimatamento.
“Abbiamo deciso di portarci appresso una cliente durante la salita di acclimatamento – dicono i due alpinisti nella loro relazione - chiaramente rivisitata per adeguarla alle capacità della ragazza. Al campo base del Nireka ultimiamo i preparativi, facciamo scuola di ghiaccio, “addobbiamo” il ghiacciaio come un parco giochi perché Marine possa impratichirsi con tutte le manovre di corda, quindi decidiamo di partire per la vetta. Marine dà però segni di debolezza e dopo pochi passi torna indietro. Per Nik e me, però, è estremamente importante portare a termine la salita e continuiamo dopo averla riaccompagnata”.

Dopo la salita, i due alpinisti salgono verso Gokyo, mentre la cliente rientra accompagnata da uno sherpa. La prima ricognizione mostra subito alla cordata che le due linee di salita individuate sulla parete non sono in condizioni ottimali. Così Bonino e Meli, piuttosto che percorrere una via già aperta, cambiano meta e si dirigono al Chumbu, 6.870 metri, che si trova nella valle dietro al Chakung, affrontando un lungo e accidentato avvicinamento tra dune di ghiaccio e sassi, morene, colline erbose.

“Forti delle nostre capacità e delle nostre precedenti esperienze alpine e himalayane – scrivono ancora i due alpinisti -, predisponiamo
questo piano: C1 all’evidente colle alla base dello sperone più ripido, “tanto aspettiamo il Sole che in 3 h max siamo su”. Poi “dormiamo, il giorno dopo saliamo in vetta e scendiamo a C1, e poi si torna a Gokyo a mangiare bistecche e patate. Lo sperone di roccia e ghiaccio fa 1.400m di dislivello circa. Dovremmo farcela”.

I due alpinisti partono leggeri, ma solo arrivare alla crepaccia terminale si rivela “un’impresa massacrante” per la neve profonda e inconsistente. La salita è anche peggio. “Proseguiamo lenti e il terreno si fa sempre più ripido e complesso – scrivono nella relazione -. Entriamo in una zona di seracchi, incontriamo tiri di cui uno a 90 gradi, si sprofonda nella neve. Al bivacco, 6000 metri, siamo demoliti. Stiamo benissimo, niente mal di testa, nessun sintomo di mal di montagna, solo grande stanchezza fisica”.

“Il giorno successivo decidiamo di acclimatarci ulteriormente – scrive Bonino – e di riposarci, e di dare spazio solo ad una piccola ricognizione poco oltre. Attacco il primo tiro dopo la cengia, un diedro di misto delicato che deve condurre in cresta. Faccio 10 metri, poi un po’ confusamente costruisco una sosta e dico a Nik di calarmi. C’è qualcosa che non va. Eppure sto bene, non ho mal di testa, non ho nausea… non capisco cosa stia succedendo. La testa mi gira e la vista è appannata. La vetta mi sembra all’improvviso lontanissima e lo sperone insormontabile”.

“Sono ancora lucido – confessa l’alpinista -, sento che non può essere nulla di grave perché non ne ho i sintomi, ma tutt’a un tratto mi sento davvero sperso nel nulla, lontano da tutto e da tutti. Non è come da noi che basta una telefonata e pochi minuti dopo arriva
l’elicottero. In questi momenti, in questi luoghi più che mai, ognuno deve avere la lucidità di chiedersi se vale la pena rischiare. La cordata qui assume un significato fortissimo di legame tra persone”.

Dopo la rinuncia, i due si sono chiesti come mai fosse andata male. “Cosa c’era di diverso dalle salite che abbiamo effettuato l’anno scorso? – scrivono -. Il trittico di vie realizzato precedentemente era fatto di salite che raggiungono una quota massima di 6.000 metri, con un avvicinamento relativamente breve e tiri di corda con possibilità di riposo tra uno e l’altro. L’obbiettivo di quest’anno era invece una montagna di 7.000 metri che, benché dura, richiedeva lunghi tratti di arrampicata in conserva. Ma in realtà questa è solo una piccola parte di ciò che ci ha sfiniti. Questa era una via dura ma assolutamente alla nostra portata, da un punto di vista tecnico. Il problema e’ stato, a nostro parere, la strategia errata ad averci logorato poco a poco”.

“Se si parte per un obbiettivo così alto ed impegnativo – proseguono -, bisogna ottimizzare le energie durante tutto il periodo di acclimatamento e di spostamento. Non si può pensare di portare un cliente al seguito per fare una salita di acclimatamento che sarà sicuramente un compromesso. Non si può neppure girare mezzo Khumbu alla ricerca di buone condizioni e poi, una volta trovate, partire in totale autonomia per affrontare una salita come quella che avevamo in mente, senza avere almeno un campo base attrezzato dove riposare adeguatamente. Noi al campo base siamo già arrivati stanchi”.


Confortola verso il Dhaulagiri

Marco Confortola

Marco Confortola

SANTA CATERINA VALFURVA, Sondrio — E’ pronto a ritornare in Himalaya Marco Confortola. La sua prossima meta sarà il Dhaulagiri che tenterà di salire in primavere insieme allo sherpa Pasang, già suo compagno l’anno scorso al Lhotse. In quell’occasione il tentativo era fallito a causa del freddo sofferto ai piedi, privi di diverse dita. Questa volta l’alpinista valtellinese riproverà con l’ausilio di nuovi scarponi, allo scopo di portare a casa la cima e potersi tatuare sul suo braccio una nuova stella alpina, la settima: una per ogni ottomila conquistato.

E’ la prima volta per Marco Confortola al Dhaulagiri, ma è la seconda spedizione che l’alpinista di Santa Caterina Valfurva organizza dopo quella terribile estate 2008 sul K2, quando scampò la morte per un soffio nella tragedia in cui persero la vita 11 scalatori. Nella primavera 2010 aveva tentato la vetta del Lhotse, senza però riuscirci.

“L’anno scorso non sono andato in cima perché mi facevano male i piedi per il freddo – racconta Confortola -, però quest’anno l’azienda Scarpa sta preparando un nuovo paio di scarponi appositamente per me. Hanno trovato un plantare che ha usato anche Edurne Pasaban allo Shisha Pangma, per via dei congelamenti ai piedi che si era procurata nel 2004 al K2. Con questi plantari l’anno scorso lei è riuscita ad arrivare in cima nonostante il freddo”.

Ai nuovi scarponi insomma, il valtellinese affida le speranze di riuscita della prossima spedizione al Dhaulagiri, con i suoi 8.167 metri, la settima montagna più alta del mondo. Partirà probabilmente a metà aprile, insieme allo sherpa Pasang. Al campo base poi, potrebbe incontrerà anche un’altra spedizione italiana, quello di Mario Merelli e Marco Zaffaroni, anche se la notizia non è ancora stata confermata.

“Ho visto il Dhaulagiri dalla cima dell’Annapurna quando sono salito lungo la parete nord con Gnaro Mondinelli – racconta Confortola -. Ricordo di avergli chiesto che montagna fosse quella grande che vedevo dietro di noi, e lui mi aveva detto, appunto, che era il Dhaulagiri. Allora ho pensato: un giorno ci tornerò. Vado anche perché questa montagna insieme al Broad Peak è stata salita per la prima volta dal mio amico Kurt Diemberger. Lui mi ha portato fortuna al Broad Peak, spero che me la porti anche adesso. Per me sarebbe il settimo ottomila. Spero di aggiungere un’altra stella alpina sul mio braccio destro. Ne ho già tatuate 5, più una più grande che simboleggia il K2″.


Juri Chiaramonte in Val Daone su "You drive me crazy" e "La legge del taglione"


tuta che diventa sacco a pelo per campeggiatori d’alta montagna


Gli appassionati di campeggio non si arrendono neanche davanti al freddo polare. Ma bisogna ammettere che spogliarsi per infilarsi nel sacco a pelo, a certe temperature, può essere traumatico. Ed entrare nel sacco a pelo vestiti può risultare scomodo. Ecco, allora, la tuta da neve che funziona anche da sacco a pelo. Si chiama First Ascent Peak XV e, purtroppo, costa 1000 dollari (poco più di 800 euro): una cifra non indifferente. Certo, se siete in mezzo alla neve d’inverno, potete risparmiare sul riscaldamento di casa…