Lightbox Effect

arriva il libro inchiesta sulla tragedia del 2008 sul K2

“No Way Down”, senza ritorno. E’ con questo titolo che una delle più grandi tragedie della storia dell’alpinismo, il crollo del seracco sul K2 nell’agosto 2008, verrà messa nero su bianco. A farlo è Graham Bowley, giornalista del New York Times, che ha raccolto in un libro, in uscita a giugno, le interviste di tutti i sopravvissuti alla tragedia che fece 11 morti, e anche di chi, a casa, aspettava o riceveva notizie. Un’indagine a tutto tondo, che mette a confronto versioni discordanti, indaga la personalità degli alpinisti, ricostruisce quella notte infernale. E che l’autore anticipa in questa intervista esclusiva di Montagna.tv.

Bowley, che tipo di libro è quello che hai scritto sulla tragedia del K2?
E’ una ricostruzione dei fatti. Racconta di nuovo quella storia dal punto di vista delle persone che l’hanno vissuta. Ho fatto centinaia di interviste, comprese le 35 persone che si trovavano lì in quei giorni. Le ho intervistate molte volte, per capire bene cosa facevano e pensavano in quel momento. Ho voluto sentire anche tante altre persone, che magari erano a casa e parlavano con loro. Per esempio il team olandese, che per tutta la notte ha tenuto i contatti Wilco van Rooijen per telefono e dava aggiornamenti sugli eventi via web.

Come sei riuscito ad intervistare tutti i sopravvissuti?
Ho viaggiato molto. Il primo viaggio è stato in Irlanda, dalla famiglia di Gerard McDonnell, l’alpinista irlandese morto sul K2. Erano passate poche settimane dall’incidente. Poi sono andato ad incontrare il team olandese: Wilco van Roojen e Cas Van de Gevel. Sono venuto in Italia, da Marco Confortola, e poi sono andato a cercare gli Sherpa. Sono stato dai norvegesi, da Cecilie Skog, e a gennaio sono andato in Spagna per incontrare Alberto Zerain, un alpinista che mi ha impressionato molto: quella notte è partito da campo 3, è andato in cima ed è rientrato scampando al disastro.Molto simpatico e davvero bravo. Sono andato anche in Francia, e ho passato tre giorni con la famiglia di Hugues d'Auberade, anche lui morto lassù. Aveva 61 anni, ho cercato di capire qualcosa del suo carattere e perché ha voluto fare quella scalata. Poi sono tornato da Wilco e Cas, ho conosciuto le loro famiglie, per capire che tipo di persone sono, ho scoperto cose molto diverse da quello che sono in montagna. Piano piano li ho sentiti tutti.

Perchè hai voluto scriverlo?
Io lavoro per il New York Times come reporter e un giorno di quell’agosto, un mese molto tranquillo per il giornale, è arrivata quella notizia sull’incidente sul K2. Io lavoravo sugli esteri e il mio caporedattore ha detto: Graham, perché non scrivi un articolo su questo? Io non mi intendo di alpinismo e non mi interessava neppure. Ho detto: “veramente non mi interessa molto, non voglio scriverla, non capisco perché il pubblico si debba preoccupare di queste persone che hanno deciso di inseguire degli obbiettivi personali lassù a quell’altezza e oltre i limiti. E’ solo molto triste”. Ma lui ha risposto: no, non hai capito, devi farlo. E così, ho scritto il pezzo. Quel giorno ho parlato con alcune persone al campo base e alla fine della giornata hanno deciso di metterla in prima pagina sul New York Times. Il giorno dopo, tramite il sito web, mi sono arrivati centinaia di messaggi: c’era gente che, come me, si chiedeva perché doveva interessarci, ma molti altri dicevano che sì, ci deve interessare, perché stavano sfidando il limite della dell’esperienza umana.

E così hai proseguito?
Sì, ho scritto un altro articolo, chiedendomi proprio queste cose. E lì ho realizzato che volevo saperne di più, del perché queste persone avevano intrapreso una tale sfida. Io sono inglese, e mi aveva colpito molto la storia di quel ragazzo irlandese, che sentivo vicino a me, e che era andato così lontano da casa sua, su quelle montagne, in un ambiente così diverso, per poi morire ritornando dalla vetta. Volevo capire perché lo aveva fatto. Un editore di libri, che aveva visto i miei articoli, mi ha chiesto perché non scrivevo un libro. Io ho risposto che non avevo mai scritto nulla di alpinismo, e mi ha detto che poteva essere un’occasione per riuscire a dare un taglio nuovo, quello di chi guarda da fuori questo “pazzo mondo dell’alpinismo”. Si trattava di entrarci, capire queste persone disposte a giocarsi la vita su una montagna, così distanti da quello che sono io. Era una sfida vera per me come persona e come reporter del New York Times. E’ stata, alla fine, un’incredibile esperienza.

E quali sono le tue conclusioni? Perché gli alpinisti rischiano tanto?
Ci sono diverse ragioni per cui la gente scala. Prima di tutto dà significato alla vita di certe persone. In generale, sentono il richiamo di posti selvaggi, è dove si sentono più a loro agio. Il loro è un modo di vivere diverso, interessante. Alcuni sono marito e moglie, viaggiare è un modo di stare insieme, come i norvegesi Cecilie e Rolf. Altri come Hugues hanno scoperto l’arrampicata dopo i 40 anni e, anche se avevano un’attività di successo, ad un certo punto hanno mollato tutto per la montagna. Quando sono stato al campo base del K2, lo scorso giugno, ho avuto modo di apprezzare la gioia del risultato fisico, la sensazione di essere riuscito a fare qualcosa, che loro devono provare in modo esponenziale lassù.

Quel viaggio ha influenzato il libro?
Sì molto. Ero preoccupato, mia moglie era incinta e per un reporter americano andare in quei luoghi può rivelarsi rischioso, anche se ci andavo per il mio libro e non per il giornale. Ma quando sono tornato ero molto contento, perché capivo di scrivere in modo diverso da prima. Anche il mio editore l’ha notato con soddisfazione. Ho viaggiato con alpinisti che andavano ai Gasherbrum e sono stato settimane con loro, parlandoci tutti i giorni da quando si svegliavano a quando andavano a dormire, per capire chi erano e cosa cercavano. Mi ha aiutato a capire come pensano gli alpinisti, come sono coinvolti a livello umano, in un certo senso anche la mancanza di romanticismo nel loro viaggio e la sfida alla sopravvivenza.

Dopo questa ricerca, che idea ti sei fatto della tragedia? Era evitabile o no?
Ci sono molti aspetti da considerare. C’è quello, importante, del crollo del seracco, che non era ovviamente evitabile. Però il seracco è caduto alle 9 di sera, e forse gli alpinisti avrebbero già dovuto essere tornati, quindi potevano evitarlo, come ha fatto Alberto Zerain che a quell’ora era già al campo 3. Poi, c’erano così tante persone quel giorno sulla montagna. Questo ha reso le cose più difficili e ha creato ritardi. Alberto, l’unico che ha evitato la tragedia conquistando comunque la vetta, ha agito da solo, non ha fatto parte di quel piano generale. Gli altri facevano parte di 8-9 spedizioni, pensavano di aiutarsi a vicenda facendo squadra, collaborando, invece poi si sono comportati come spedizioni divise, senza un leader. Lassù, poi, erano così vicini a raggiungere quello per cui avevano investito tempo e denaro e non sono tornati indietro come forse avrebbero dovuto fare. Tutto questo poteva essere evitato, intendo salire insieme in così grande numero affollando Traverso e Collo di bottiglia. Ma è difficile dirlo, perché capisco come mai hanno scelto di andare avanti insieme: il tempo era stato pessimo, tutti dovevano andare in cima, ed erano così tanti che senza coordinamento sarebbe stato il caos. E’ un errore che facciamo tutti: sovrastimiamo la capacità del gruppo e sottostimiamo i pericoli. Quelli che hanno commesso questo errore, hanno potuto contare soltanto sulla loro forza e la loro perseveranza per sopravvivere. Marco Confortola mi ha colpito, credo davvero che abbia dimostrato un’enorme, tremenda forza nello scendere da solo la montagna dopo 4 giorni ad alta quota.

Dopo la tragedia si sono moltiplicate le accuse. Per alcuni era colpa dei portatori, per altri degli alpinisti. Cosa ne pensi?
I portatori sono stati accusati di lentezza, di aver dimenticato le corde, averle fissate male, di essere andati su e giù senza ragione ritardando la salita. Io penso che i portatori abbiano cercato di fare il loro compito, magari non erano in grado, ma è difficile biasimarli, gli alpinisti devono prendersi le loro responsabilità. Questo tema solleva dinamiche davvero interessanti, al di là della tragedia. Per esempio il K2 non è l’Everest, dove ci sono Sherpa con grossa esperienza d’alta quota, specializzati in montagna, che sanno come risolvere le emergenze. I pakistani sono persone differenti. Non esiste un settore di professionisti della montagna o guide alpine.

Pemba Sherpa è considerato l’eroe di quel giorno. L’hai incontrato?
E’ l’unico che non mi ha parlato direttamente. Ma l’ho intervistato tramite dei suoi amici, per email, e ho visto un video girato a Islamabad nell’agosto 2008 in cui lui racconta cosa è successo sulla montagna. E’ una persona davvero notevole, ha salvato tante persone e le ha aiutate a tornare indietro. È molto, molto forte.

E’ vero che fornisce una versione della storia diversa dagli altri?
Sì è vero. Non è l’unico però, ci sono molti punti di vista in questa storia, e qualcuno è proprio in disaccordo con altri su cosa accadde, anche sulle cose più piccole. Per esempio: Chirring Dorje ha detto che Wilco è caduto sul Collo di Bottiglia mentre saliva. Due persone l’hanno visto e me l’hanno raccontato. Ma quando l’ho chiesto a Wilco, lui ha negato. Penso che questi disaccordi siano anche un effetto della quota, ho tantissimi esempi di gente che nega quello che mi ha raccontato l’altro, per esempio su chi sia responsabile della lenta progressione sul traverso, ed è difficile dire chi abbia ragione. Un altro esempio è il soccorso ai coreani appesi a gambe in su trovati da Confortola e McDonnell. Fin qui, tutti d’accordo, poi le versioni divergono. Marco dice di aver tentato il soccorso con Gerard prima che lui se ne andasse in stato confusionale e venisse travolto da una valanga. Pemba pensa che non sia Gerard quello che Marco vide nella valanga, e racconta di aver sentito Pasang Bhote, uno sherpa nepalese che morì lassù, dire via radio dal Traverso che lui stava aiutando i coreani e suo cugino Jumik, intrappolati sulle corde. La famiglia di Gerard crede che Gerard fosse rimasto coi coreani e li avesse liberati mentre Marco era sceso. Altri ancora credono che nessuno di questi abbia aiutato i coreani e molti, tra cui i coreani sopravvissuti, dicono che gli alpinisti intrappolati si trovavano in un'altra posizione sulla montagna.

Hai intervistato anche i coreani?
Sì, ho parlato con Kim Jo Soon, il leader, e anche con Go Mi Sun. Non ero riuscito a intervistarli tramite il nostro reporter in Corea, ma quando sono stato a Islamabad, ho saputo che erano lì, ho preso un taxi e li ho raggiunti in albergo. E’ stato fantastico perché li ho intervistati di persona e anche perché è accaduto appena prima che lei andasse al Nanga Parbat dove poi è morta. Sono molto scettici sul soccorso ai loro compagni e hanno criticato duramente le altre spedizioni, soprattutto per la corsa in discesa. Hanno detto che molti alpinisti erano molto stanchi nella discesa e li hanno rallentati facendoli rischiare.

Come hai risolto il dilemma di tutte queste versioni discordanti?
Io volevo capire qual era la storia corretta per poterla raccontare a così tante persone, ma era difficile perché oltre ai disaccordi, ci sono persone che hanno cambiato la loro versione dei fatti, prima hanno detto una cosa e poi un’altra, e dicono: io mi ricordo così. Ho dovuto prendere una decisione. Quello che ho potuto fare è parlare con il maggior numero di persone possibile di quelle che erano lassù e riportare le dichiarazioni di tutti, verificando fin dove potevo se erano veritiere e lasciando che il lettore tragga le sue conclusioni. Forse la verità non la sapremo mai, primo perchè forse non la sanno nemmeno i protagonisti, la quota, lo stress, la stanchezza, la paura confondono. E poi perchè molte persone coinvolte e citate sono morte e non possono dire la loro.

C’è diversità di atteggiamento tra alpinisti di una nazione o di un’altra?
Sì, è vero, c’è molta differenza e si notano le diverse tradizioni da cui provengono gli alpinisti. Mi è sembrato che gli americani fossero meno ossessionati dalla cima rispetto ad altre persone, una filosofia del tipo: “non ho fatto la cima, ok, torno indietro” anche se magari mancava poco. Per gli europei e gli asiatici è anche una questione di storia e tradizione: si vede dal modo in cui parlano che per loro è importante, per esempio da come Marco parlava della salita italiana del 1954. C’è anche un diverso atteggiamento sul rischio. Credo che gli asiatici siano più propensi ad assumersi grossi rischi perché vogliono davvero raggiungere il risultato. Diverso anche il gruppo: quello dei coreani era un grande gruppo, con un forte senso della nazione e della responsabilità. Loro vanno lì per conquistare qualcosa per la loro nazione. Invece europei e americani vanno anche con piccoli gruppi di amici, non necessariamente legati a uno sponsor, per raggiungere uno scopo personale, magari anche solo quello di viaggiare, di raggiungere la cima per sé stessi, o di fare un film.

Sei a conoscenza di un altro libro su questa storia, commissionato dal Pakistan Alpine Club?
Ho parlato tanto con i responsabili del Pakistan Alpine Club e sono molto preoccupati per quello che si è detto sui portatori. So che c’è un libro scritto proprio da questo punto di vista, quello dei portatori e degli sherpa. Probabilmente è quello, ed è diverso dal mio perchè non è una ricostruzione generale dei fatti. E’ giusto che venga scritto, penso che i portatori meritino di raccontare la loro storia, io ne ho incrociate alcune, come quella di Jahin Baig, che cerca di far vivere i suoi bambini in un povero villaggio con questo lavoro pericoloso. Vanno raccontate.

Quando e dove sarà pubblicato il tuo libro?
“No Way Down” sarà pubblicato a fine di giugno in Usa dalla HarperCollins, i Gran Bretagna dalla Viking Penguin, in Olanda e in Brasile. In Italia non ancora, ma mi piacerebbe molto che accadesse presto.


Graham Bowley è nato in Gran Bretagna, in una fattoria delle Midlands vicino a Liecester, nel 1968. E’ stato corrispondente estero del Financial Times e dell’ International Herald Tribune. Ha vissuto in Germania e Belgio ed è sbarcato a New York quattro anni fa per lavorare al New York Times.





0 commenti: