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the end of Tobbio's winter season


Mondinelli, Blanc, Camandona ed Enzio: Dream team italiano alla nord dell'Everest

Dream team italiano alla nord dell'Everest. Questa primavera, sul versante tibetano del Tetto del mondo scenderanno in campo i due valdostani Abele Blanc e Marco Camandona, con il giovane piemontese Michele Enzio e un inarrestabile Silvio "Gnaro" Mondinelli che, fresco di investitura di "cavaliere della Repubblica Italiana", punta a salire senza ossigeno l'Everest anche dal versante Nord. La partenza è fissata per il 31 marzo. E non è escluso che Blanc, dopo l'Everest, non ritenti l'Annapurna, il suo ultimo ottomila.

"I vecchi tornano all'Everest con i giovani - scherza Mondinelli -. ma non vecchi di età, eh, vecchi di ottomila! Scherzi a parte. Prima di tutto vado per allenarmi in vista della spedizione estiva al Gasherbrum I. Ma non nascondo che mi piacerebbe salire l'Everest anche dal versante Nord. Così l'avrei salito senza ossigeno da entrambi i lati".

Per "Gnaro", 52 anni a giugno, questa è la terza spedizione al versante Nord dell'Everest. Le prime due sono state nella primavera del 1999 e del 2000: una volta ha raggiunto quota 8.200, l'altra 8.600 metri. Ha dovuto rinunciare in entrambi i casi per colpa del maltempo, e in entrambi i casi ha salvato delle vite umane ad alpinisti in difficoltà oltre gli ottomila metri.

Questi soccorsi ad alta quota, che hanno tempestato la sua straordinaria carriera alpinistica che lo ha portato ad essere il sesto uomo della storia ad aver salito tutti i 14 ottomila senza ossigeno, sono valsi a Mondinelli nei giorni scorsi la nomina a Cavaliere della Repubblica Italiana. Il titolo, conferito dal Presidente Napolitano, arriva a Mondinelli poche settimane dopo aver lasciato la Guardia di Finanza, in cui ha prestato servizio per 33 anni e da cui è andato in pensione a fine dicembre.

"Sono contento di ripartire con Michelino - dice Mondinelli -, per lui l'Everest è rimasto un sogno e spero che saliremo in vetta insieme. Sono felice anche di aver combinato con Abele e Marco. Ho saputo che partivano dalla Cho Oyu Trekking, quando cercavo il permesso di salita per me e Michelino. Ci siamo sentiti e adesso partiamo insieme. Abele è un tranquillone, io invece voglio sempre spaccare il mondo... insieme formiamo una bella via di mezzo!".

Abele Blanc, 56 anni, valdostano, ha salito 13 ottomila. Alla sua collezione manca soltanto l'Annapurna, che ha già tentato 5 volte ma con cui non è mai riuscito a chiudere i conti. L'ultimo tentativo risale al 2006, quando ha dovuto improvvisamente rientrare per una tragedia familiare. Secondo indiscrezioni, pare che Blanc voglia riprovarci questa primavera, dopo l'Everest. Ma ancora non c'è nessuna conferma.

Mondinelli ha scalato con Blanc al Dhaulagiri e per due volte all'Annapurna, dove c'era anche Marco Camadona. Lui, 40 anni, valdostano, è guida alpina a Valgrisenche e ha già salito alcuni ottomila, tra cui il K2 con Blanc nel 2000, il Manaslu e il Cho Oyu.

Enzio è il più giovane del gruppo. Classe 1974, è nato sul Monte Rosa e proviene da una famiglia di guide alpine per tradizione. Appassionato di sci estremo e parapendio, è sbarcato in Himalaya nel 2006 arrivando in vetta allo Shisapagma, 8027 metri proprio con Mondinelli. Nel 2008 ha preso parte, ancora con Mondinelli e Marco Confortola, alla spedizione alpinistico-scientifica Share Everest 2008 del Comitato EvK2Cnr che ha installato sul Colle Sud dell'Everest la stazione meteorologica più alta del mondo. Quell'anno arrivò a 8.600 metri senza ossigeno, e dovette rinunciare per colpa del vento.

"E' una grande emozione tornare all'Everest - racconta Enzio -. Sono contento di salire dal versante nord perche quello nepalese lo conosco già, di qui invece è un percorso nuovo quindi è come fosse un'altra prima volta. Ma essendoci già stato so già che oltre gli 8000 metri è davvero dura, è eterna la salita fino alla cima. Blanc e Camadona non li conosco, ma sono felice che ci sia il 'Papi' Gnaro".

Alla Nord dell'Everest, Mondinelli e soci troveranno diversi amici. Tra gli altri, ci sarà Gerlinde Kaltenbrunner con il marito Ralf Dujmovits.


via nuova in solitaria "Aconcagua sud"

Una solitaria memorabile per l'alpinista americano Chad Kellogg, che a dicembre ha aperto una via nuova sulla strapiombante parete sud dell'Aconcagua (6.962 metri). Kellogg è salito in stile alpino, facendo slalom tra crolli di ghiaccio e di roccia, completando la sua "The Medicine Buddha", lunga 2000 metri, in 42 stremanti ore di scalata.

Kellogg, 35 anni, è un ex-ranger del Mount Rainier National Park. Ha all'attivo prime ascensioni in stile alpino in Himalaya ed è celebre negli Usa per le sue salite veloci: vanta un record sul McKinley ed è stato il primo uomo a salire e scendere in meno di 5 ore il Mount Rainier.

A dicembre è partito per l'Aconcagua con un amico, per riprendersi da un infortunio al braccio capitato 9 mesi fa durante una discesa in freeride e per allenarsi in vista della spedizione all'Everest della prossima primavera. I due, intenzionati ad affrontare la temibile parete Sud, hanno prima salito la montagna dalla via normale. Poi, però, un problema polmonare ha costretto Rory a tornare a Mendoza per curarsi.

Chad, rimasto solo ai piedi della parete, ha esaminato la situazione, poi ha deciso di tentare la potenziale linea che aveva individuato sulla Sud. "Era alla mia portata - racconta l'alpinista - anche se molto pericolosa per i seracchi e i crolli di ghiaccio che da sotto vedevo cadere ogni ora".

Kellogg è partito da Plaza Francia (4.100 metri) il 22 dicembre alle 4 del mattino. La prima parte della salita, circa 1000 metri, era su ghiaccio con pendenze di 65-70 gradi. Poi, ha difficoltosamente superato un cruciale passaggio di roccia dove è stato sfiorato da una grossa valanga. Per superarlo, ha dovuto passare attraverso un "buco di serratura" preceduto da un delicato tratto di misto di 75 gradi.

"Essendo da solo, ero concentrato su ogni movimento - ha detto Kellogg -. Ogni mossa doveva essere la migliore. In alcuni punti avrei dovuto assicurarmi di più, ma non ne avevo il tempo perchè in meno di un'ora avrebbero scaricato di nuovo. E infatti, cinque minuti opo che ero uscito dalla sezione, un seracco è crollato nel buco della serratura".

Kellogg aveva progettato di riuscire ad andare in vetta in 24 ore, ma nella sezione superiore è stato rallentato da pessime condizioni del ghiacciaio, coperto da neve zuccherosa e instabile. Alle 11 di sera si è fermato vicino alla via Messner, ha bivaccato all'addiaccio con i piedi nello zaino e scaldandosi con due bottiglie d'acqua. Il giorno dopo, stanco, affamato e a corto di beveraggio, ha proseguito per un breve tratto sulla via Messner uscendo sulla variante Argentina a 6500 metri. Ha raggiunto la cima alle 10 di sera allo stremo delle forze.

Da lassù ha chiamato i guardiaparco dicendo che era diretto al Nido d'aquila, sulla via normale, dove è arrivato all'una e mezza di notte della vigilia di Natale.


come evitare l'insidia dei crepacci nei fuori pista

Una storia vera. Quella di una donna che, sciando lungo un ghiacciaio che conosceva bene, è precipitata in un profondo crepaccio. E questo soltanto perchè, avvicinandosi ad un dosso, ha deciso di fermarsi per vedere meglio la discesa che l'attendeva. Inizia così il nuovo, impressionante video prodotto dalle guide di Chamonix per promuovere la sicurezza dello sci fuoripista su ghiacciaio e ridurre il numero delle cadute in crepaccio.

Silenzio, buio, battito accellerato del cuore. La donna si ritrova otto metri nel cuore del ghiaccio senza sapere se riuscirà a tornare in superficie. Sciare su ghiacciaio è una delle cose più belle del mondo, ma è necessario essere consapevoli dei pericoli che comporta, per saperli evitare.

Ecco come è nato questo video, prodotto a Chamonix da Offpisteskiing e la Compagnie du Mont Blanc in collaborazione con la guida alpina e istruttore di sci Andy Perkins. L'obiettivo è di ridurre il numero di sciatori che cadono in un crepaccio. Un problema molto sentito ai piedi del Bianco, dove si trova uno dei fuoripista più celebri e frequentati del mondo, quello della Vallèe Blanche.

In sette minuti, il video spiega come riconoscere i crepacci, quale materiale alpinistico bisogna avere su ghiacciaio, l'utilità delle radio, come comportarsi in gruppo durante la discesa e cosa fare in caso di incidente. Per tutto l'inverno, questo video verrà proiettato sugli schermi dei comprensori dell'Aiguille du Midi e del Grands Montets.


alba sull'Annapurna South (7,219 mt.)

alba sull'Annapurna South (7,219 mt.)

foto scattata appena sveglio al Machhapuchhre B.C. durante il trekking dell'Annapurna B.C. - dic 2008


Patrick Hollingworth - Mt.Baruntse 7129 mt. - Nepal



Patrick Hollingworth nel tentativo del Baruntse 7129 mt (Nepal). tra aprile e maggio 2009.



Everest e Lhotse ritornano Moro & Urubko

"Chiudere la partita con la vetta dell’Everest, che vorrei raggiungere completamente senza ossigeno. E tentare una nuova via in stile alpino sul Lhotse, la quarta montagna più alta della Terra, insieme a Denis. Solo noi due, su una porzione vergine della grande montagna che tutti sembrano sognare allo stesso modo da oltre 50 anni". E' pronto a tornare in campo il dream team italo-kazako formato da Simone Moro e Denis Urubko, che il prossimo 20 marzo partiranno per il Nepal con il mirino puntato ad un'accoppiata di giganti davvero impressionante.

L’Everest, 8848 metri, ed il Lhotse, 8516 metri. Da salire nel giro di una stagione, entrambi senza ossigeno. Ma Moro, che non è mai stato un "fanatico della collezione di ottomila", non punta solo a raggiungere le due vette, che fra l'altro annovera già nel suo curriculum. Vuole di più: tenterà di salire il Lhotse aprendo una via nuova in stile alpino.

"La corsa ai 14 ottomila è un obbiettivo impegnativo, molto difficile, rischioso e costoso - racconta Moro -. Non aggiunge una briciola di avventura alla storia dell’alpinismo e dell’esplorazione umana, anche se di sicuro regala una gioia personale grande a coloro che dedicano una vita per questo sogno. Tra quaranta giorni tornerò laddove sono stato tante volte, ma per tentare qualcosa di nuovo. Io e Denis riproveremo a porre l’accento sul “come” voglia scalare e non sul “che cosa” scaliamo".

Con Moro, infatti, ci sarà di nuovo l'amico e compagno di cordata Denis Urubko, con cui l'anno scorso ha compiuto la prima salita invernale al Makalu in stile leggero. "Il 2009 è stato per noi il decimo anniversario della nostra amicizia - dice Moro - e di numerosi successi alpinistici iniziati in Pamir e Thien Shan. Il Makalu è stato il nostro modo di festeggiare la cordata. Ha fatto rumore quella salita. Ora il rumore sarà diverso. Sarà il rumore ed il vociare che sentiremo del campo base più affollato dell’Himalaya e dell’8000 più salito. Il Lhotse è lì attaccato e dunque anche lui soffre di iper frequentazione, almeno fino a circa 8000 metri dato che la sua via di salita è in comune con quella dell’Everest".

"Io e Denis però proveremo ad uscire dalle code - prosegue l'alpinista bergamasco - per tentare una nuova via. Solo noi due su una porzione vergine della grande montagna che tutti sembrano sognare allo stesso modo da oltre 50 anni, ma che rappresenta l’8000 con meno vie di salita alla vetta. Quella svizzera del 1953 e la via Russa del 1990. A queste due forse c’è da considerare anche quella salita da Tomo Cesen in solitaria anche lui nel 1990".

Prima di tentare la via nuova al Lhotse, però, Moro vuole salire l'Everest: per la quarta volta nella sua vita, e per la prima senza ossigeno. Nelle precedenti spedizioni - 2000 da sud, 20002 da nord, 2006 traversata da solo sud/nord - l'alpinista bergamasco ha fatto sempre un parziale uso di ossigeno. "Vorrei chiudere la partita - confessa Moro - vorrei raggiungere la vetta completamente senza ossigeno, in occasione di un accompagnamento come Guida che ho deciso di fare per Aldo Garioni, amico e alpinista di Brescia che vuole regalarsi questo sogno condividendolo con qualcuno che lassù c’è già stato".

Urubko sarà con loro fino a Colle Sud. Non ha il permesso di salita dell'Everest, ma si acclimaterà con il compagno di cordata in vista del tentativo al Lhotse. Dopo l'Everest, il gruppo tornerà a Kathmandu per qualche giorno di riposo e per definire nei dettagli la linea di salita da tentare sul Lhotse.

"Decideremo laggiù quale versante del Lhotse tentare - spiega Moro -. Il tutto sarà deciso solo sul posto in funzione delle condizioni della parete e meteo. Questo è dunque un ritorno all’himalaya tenendo fede a questa voglia di continuare l’approccio e lo stile dei grandi del passato, che hanno fatto davvero scuola di esplorazione ed avventura ed hanno ispirato non solo noi ma anche alcuni (non molti) altri alpinisti che in questi anni hanno regalato bei momenti d’alpinismo sugli 8000 e su cime di quote inferiori".

"Purtroppo alcuni di loro sono scomparsi proprio in questi ultimi 3-4 anni - riflette l'alpinista -. Sia io che Denis non possiamo far finta che queste disgrazie siano lontane o che non ci appartengano. Per questo motivo aspettiamo a decidere dove salire finchè non saremo sotto la montagna per poter analizzare, valutare e decidere. Nessuno dei due vuole fare l’eroe e portare a casa una storia che abbia poco da insegnare ai nostri figli e al mondo alpinistico. Valuteremo dunque prima i rischi, la velocità con cui sappiamo muoverci, le difficoltà, gli orari e poi decideremo".

Moro e Urubko hanno passato gli ultimi tre mesi ad allenarsi in Italia. Il 20 marzo partiranno per il Nepal e affronteranno un lungo trekking di acclimatamento durante il quale saliranno anche al Gokyo Ri, 5.535 metr, al Cho La pass, 5400 metri, al Chhukung Ri 5.555 metri e all’Island Peak 6.182 metri.

"Non avremo Sherpa, ossigeno, corde fisse o conoscenze preventive della via - specifica Moro -. L’idea è di andare su terreno vergine con le sole forze ed attrezzature che porteremo con noi. Ci siamo preparati tanto e l'allenamento sarà ancora lungo. Ora confidiamo solo nel meteo e nel buon Dio che sono le uniche due cose che non possiamo influenzare".

Moro, 42 anni e 43 spedizioni all'attivo, ha salito l'Everest tre volte e il Lhotse due, nel 1994 e 1997 senza ossigeno. Le sue più note imprese, oltre al Makalu, sono l'invernale del 2005 allo Shisha Pangma, 8027 metri, la traversata dell’Everest del 2006 e la via nuova al Baruntse nord del 2004 compiuta con Urubko e Bruno Tassi. Urubko, 37 anni, ha salito tutti i 14 ottomila senza ossigeno, completando il cerchio lo scorso maggio aprendo una via nuova in stile alpino sulla parete sud est del Cho Oyu. Ha raggiunto l'Everest nel 2000 e il Lhotse nel 2001.





Enrico, Rocco e Carlitos sulla Costa Muanda (2033 mt.)


Mt. Thamserku - 6,623mt. - Khumbu Valley - Nepal

Mt. Thamserku - 6,623mt. - Khumbu Valley - Nepal

Foto scattata nel primo pomerigio durante il percorso dell'Everest B.C. trekking. (dic 09 - gen 10) sulla strada tra Namche Bazaar e Tyamboche.



arriva il libro inchiesta sulla tragedia del 2008 sul K2

“No Way Down”, senza ritorno. E’ con questo titolo che una delle più grandi tragedie della storia dell’alpinismo, il crollo del seracco sul K2 nell’agosto 2008, verrà messa nero su bianco. A farlo è Graham Bowley, giornalista del New York Times, che ha raccolto in un libro, in uscita a giugno, le interviste di tutti i sopravvissuti alla tragedia che fece 11 morti, e anche di chi, a casa, aspettava o riceveva notizie. Un’indagine a tutto tondo, che mette a confronto versioni discordanti, indaga la personalità degli alpinisti, ricostruisce quella notte infernale. E che l’autore anticipa in questa intervista esclusiva di Montagna.tv.

Bowley, che tipo di libro è quello che hai scritto sulla tragedia del K2?
E’ una ricostruzione dei fatti. Racconta di nuovo quella storia dal punto di vista delle persone che l’hanno vissuta. Ho fatto centinaia di interviste, comprese le 35 persone che si trovavano lì in quei giorni. Le ho intervistate molte volte, per capire bene cosa facevano e pensavano in quel momento. Ho voluto sentire anche tante altre persone, che magari erano a casa e parlavano con loro. Per esempio il team olandese, che per tutta la notte ha tenuto i contatti Wilco van Rooijen per telefono e dava aggiornamenti sugli eventi via web.

Come sei riuscito ad intervistare tutti i sopravvissuti?
Ho viaggiato molto. Il primo viaggio è stato in Irlanda, dalla famiglia di Gerard McDonnell, l’alpinista irlandese morto sul K2. Erano passate poche settimane dall’incidente. Poi sono andato ad incontrare il team olandese: Wilco van Roojen e Cas Van de Gevel. Sono venuto in Italia, da Marco Confortola, e poi sono andato a cercare gli Sherpa. Sono stato dai norvegesi, da Cecilie Skog, e a gennaio sono andato in Spagna per incontrare Alberto Zerain, un alpinista che mi ha impressionato molto: quella notte è partito da campo 3, è andato in cima ed è rientrato scampando al disastro.Molto simpatico e davvero bravo. Sono andato anche in Francia, e ho passato tre giorni con la famiglia di Hugues d'Auberade, anche lui morto lassù. Aveva 61 anni, ho cercato di capire qualcosa del suo carattere e perché ha voluto fare quella scalata. Poi sono tornato da Wilco e Cas, ho conosciuto le loro famiglie, per capire che tipo di persone sono, ho scoperto cose molto diverse da quello che sono in montagna. Piano piano li ho sentiti tutti.

Perchè hai voluto scriverlo?
Io lavoro per il New York Times come reporter e un giorno di quell’agosto, un mese molto tranquillo per il giornale, è arrivata quella notizia sull’incidente sul K2. Io lavoravo sugli esteri e il mio caporedattore ha detto: Graham, perché non scrivi un articolo su questo? Io non mi intendo di alpinismo e non mi interessava neppure. Ho detto: “veramente non mi interessa molto, non voglio scriverla, non capisco perché il pubblico si debba preoccupare di queste persone che hanno deciso di inseguire degli obbiettivi personali lassù a quell’altezza e oltre i limiti. E’ solo molto triste”. Ma lui ha risposto: no, non hai capito, devi farlo. E così, ho scritto il pezzo. Quel giorno ho parlato con alcune persone al campo base e alla fine della giornata hanno deciso di metterla in prima pagina sul New York Times. Il giorno dopo, tramite il sito web, mi sono arrivati centinaia di messaggi: c’era gente che, come me, si chiedeva perché doveva interessarci, ma molti altri dicevano che sì, ci deve interessare, perché stavano sfidando il limite della dell’esperienza umana.

E così hai proseguito?
Sì, ho scritto un altro articolo, chiedendomi proprio queste cose. E lì ho realizzato che volevo saperne di più, del perché queste persone avevano intrapreso una tale sfida. Io sono inglese, e mi aveva colpito molto la storia di quel ragazzo irlandese, che sentivo vicino a me, e che era andato così lontano da casa sua, su quelle montagne, in un ambiente così diverso, per poi morire ritornando dalla vetta. Volevo capire perché lo aveva fatto. Un editore di libri, che aveva visto i miei articoli, mi ha chiesto perché non scrivevo un libro. Io ho risposto che non avevo mai scritto nulla di alpinismo, e mi ha detto che poteva essere un’occasione per riuscire a dare un taglio nuovo, quello di chi guarda da fuori questo “pazzo mondo dell’alpinismo”. Si trattava di entrarci, capire queste persone disposte a giocarsi la vita su una montagna, così distanti da quello che sono io. Era una sfida vera per me come persona e come reporter del New York Times. E’ stata, alla fine, un’incredibile esperienza.

E quali sono le tue conclusioni? Perché gli alpinisti rischiano tanto?
Ci sono diverse ragioni per cui la gente scala. Prima di tutto dà significato alla vita di certe persone. In generale, sentono il richiamo di posti selvaggi, è dove si sentono più a loro agio. Il loro è un modo di vivere diverso, interessante. Alcuni sono marito e moglie, viaggiare è un modo di stare insieme, come i norvegesi Cecilie e Rolf. Altri come Hugues hanno scoperto l’arrampicata dopo i 40 anni e, anche se avevano un’attività di successo, ad un certo punto hanno mollato tutto per la montagna. Quando sono stato al campo base del K2, lo scorso giugno, ho avuto modo di apprezzare la gioia del risultato fisico, la sensazione di essere riuscito a fare qualcosa, che loro devono provare in modo esponenziale lassù.

Quel viaggio ha influenzato il libro?
Sì molto. Ero preoccupato, mia moglie era incinta e per un reporter americano andare in quei luoghi può rivelarsi rischioso, anche se ci andavo per il mio libro e non per il giornale. Ma quando sono tornato ero molto contento, perché capivo di scrivere in modo diverso da prima. Anche il mio editore l’ha notato con soddisfazione. Ho viaggiato con alpinisti che andavano ai Gasherbrum e sono stato settimane con loro, parlandoci tutti i giorni da quando si svegliavano a quando andavano a dormire, per capire chi erano e cosa cercavano. Mi ha aiutato a capire come pensano gli alpinisti, come sono coinvolti a livello umano, in un certo senso anche la mancanza di romanticismo nel loro viaggio e la sfida alla sopravvivenza.

Dopo questa ricerca, che idea ti sei fatto della tragedia? Era evitabile o no?
Ci sono molti aspetti da considerare. C’è quello, importante, del crollo del seracco, che non era ovviamente evitabile. Però il seracco è caduto alle 9 di sera, e forse gli alpinisti avrebbero già dovuto essere tornati, quindi potevano evitarlo, come ha fatto Alberto Zerain che a quell’ora era già al campo 3. Poi, c’erano così tante persone quel giorno sulla montagna. Questo ha reso le cose più difficili e ha creato ritardi. Alberto, l’unico che ha evitato la tragedia conquistando comunque la vetta, ha agito da solo, non ha fatto parte di quel piano generale. Gli altri facevano parte di 8-9 spedizioni, pensavano di aiutarsi a vicenda facendo squadra, collaborando, invece poi si sono comportati come spedizioni divise, senza un leader. Lassù, poi, erano così vicini a raggiungere quello per cui avevano investito tempo e denaro e non sono tornati indietro come forse avrebbero dovuto fare. Tutto questo poteva essere evitato, intendo salire insieme in così grande numero affollando Traverso e Collo di bottiglia. Ma è difficile dirlo, perché capisco come mai hanno scelto di andare avanti insieme: il tempo era stato pessimo, tutti dovevano andare in cima, ed erano così tanti che senza coordinamento sarebbe stato il caos. E’ un errore che facciamo tutti: sovrastimiamo la capacità del gruppo e sottostimiamo i pericoli. Quelli che hanno commesso questo errore, hanno potuto contare soltanto sulla loro forza e la loro perseveranza per sopravvivere. Marco Confortola mi ha colpito, credo davvero che abbia dimostrato un’enorme, tremenda forza nello scendere da solo la montagna dopo 4 giorni ad alta quota.

Dopo la tragedia si sono moltiplicate le accuse. Per alcuni era colpa dei portatori, per altri degli alpinisti. Cosa ne pensi?
I portatori sono stati accusati di lentezza, di aver dimenticato le corde, averle fissate male, di essere andati su e giù senza ragione ritardando la salita. Io penso che i portatori abbiano cercato di fare il loro compito, magari non erano in grado, ma è difficile biasimarli, gli alpinisti devono prendersi le loro responsabilità. Questo tema solleva dinamiche davvero interessanti, al di là della tragedia. Per esempio il K2 non è l’Everest, dove ci sono Sherpa con grossa esperienza d’alta quota, specializzati in montagna, che sanno come risolvere le emergenze. I pakistani sono persone differenti. Non esiste un settore di professionisti della montagna o guide alpine.

Pemba Sherpa è considerato l’eroe di quel giorno. L’hai incontrato?
E’ l’unico che non mi ha parlato direttamente. Ma l’ho intervistato tramite dei suoi amici, per email, e ho visto un video girato a Islamabad nell’agosto 2008 in cui lui racconta cosa è successo sulla montagna. E’ una persona davvero notevole, ha salvato tante persone e le ha aiutate a tornare indietro. È molto, molto forte.

E’ vero che fornisce una versione della storia diversa dagli altri?
Sì è vero. Non è l’unico però, ci sono molti punti di vista in questa storia, e qualcuno è proprio in disaccordo con altri su cosa accadde, anche sulle cose più piccole. Per esempio: Chirring Dorje ha detto che Wilco è caduto sul Collo di Bottiglia mentre saliva. Due persone l’hanno visto e me l’hanno raccontato. Ma quando l’ho chiesto a Wilco, lui ha negato. Penso che questi disaccordi siano anche un effetto della quota, ho tantissimi esempi di gente che nega quello che mi ha raccontato l’altro, per esempio su chi sia responsabile della lenta progressione sul traverso, ed è difficile dire chi abbia ragione. Un altro esempio è il soccorso ai coreani appesi a gambe in su trovati da Confortola e McDonnell. Fin qui, tutti d’accordo, poi le versioni divergono. Marco dice di aver tentato il soccorso con Gerard prima che lui se ne andasse in stato confusionale e venisse travolto da una valanga. Pemba pensa che non sia Gerard quello che Marco vide nella valanga, e racconta di aver sentito Pasang Bhote, uno sherpa nepalese che morì lassù, dire via radio dal Traverso che lui stava aiutando i coreani e suo cugino Jumik, intrappolati sulle corde. La famiglia di Gerard crede che Gerard fosse rimasto coi coreani e li avesse liberati mentre Marco era sceso. Altri ancora credono che nessuno di questi abbia aiutato i coreani e molti, tra cui i coreani sopravvissuti, dicono che gli alpinisti intrappolati si trovavano in un'altra posizione sulla montagna.

Hai intervistato anche i coreani?
Sì, ho parlato con Kim Jo Soon, il leader, e anche con Go Mi Sun. Non ero riuscito a intervistarli tramite il nostro reporter in Corea, ma quando sono stato a Islamabad, ho saputo che erano lì, ho preso un taxi e li ho raggiunti in albergo. E’ stato fantastico perché li ho intervistati di persona e anche perché è accaduto appena prima che lei andasse al Nanga Parbat dove poi è morta. Sono molto scettici sul soccorso ai loro compagni e hanno criticato duramente le altre spedizioni, soprattutto per la corsa in discesa. Hanno detto che molti alpinisti erano molto stanchi nella discesa e li hanno rallentati facendoli rischiare.

Come hai risolto il dilemma di tutte queste versioni discordanti?
Io volevo capire qual era la storia corretta per poterla raccontare a così tante persone, ma era difficile perché oltre ai disaccordi, ci sono persone che hanno cambiato la loro versione dei fatti, prima hanno detto una cosa e poi un’altra, e dicono: io mi ricordo così. Ho dovuto prendere una decisione. Quello che ho potuto fare è parlare con il maggior numero di persone possibile di quelle che erano lassù e riportare le dichiarazioni di tutti, verificando fin dove potevo se erano veritiere e lasciando che il lettore tragga le sue conclusioni. Forse la verità non la sapremo mai, primo perchè forse non la sanno nemmeno i protagonisti, la quota, lo stress, la stanchezza, la paura confondono. E poi perchè molte persone coinvolte e citate sono morte e non possono dire la loro.

C’è diversità di atteggiamento tra alpinisti di una nazione o di un’altra?
Sì, è vero, c’è molta differenza e si notano le diverse tradizioni da cui provengono gli alpinisti. Mi è sembrato che gli americani fossero meno ossessionati dalla cima rispetto ad altre persone, una filosofia del tipo: “non ho fatto la cima, ok, torno indietro” anche se magari mancava poco. Per gli europei e gli asiatici è anche una questione di storia e tradizione: si vede dal modo in cui parlano che per loro è importante, per esempio da come Marco parlava della salita italiana del 1954. C’è anche un diverso atteggiamento sul rischio. Credo che gli asiatici siano più propensi ad assumersi grossi rischi perché vogliono davvero raggiungere il risultato. Diverso anche il gruppo: quello dei coreani era un grande gruppo, con un forte senso della nazione e della responsabilità. Loro vanno lì per conquistare qualcosa per la loro nazione. Invece europei e americani vanno anche con piccoli gruppi di amici, non necessariamente legati a uno sponsor, per raggiungere uno scopo personale, magari anche solo quello di viaggiare, di raggiungere la cima per sé stessi, o di fare un film.

Sei a conoscenza di un altro libro su questa storia, commissionato dal Pakistan Alpine Club?
Ho parlato tanto con i responsabili del Pakistan Alpine Club e sono molto preoccupati per quello che si è detto sui portatori. So che c’è un libro scritto proprio da questo punto di vista, quello dei portatori e degli sherpa. Probabilmente è quello, ed è diverso dal mio perchè non è una ricostruzione generale dei fatti. E’ giusto che venga scritto, penso che i portatori meritino di raccontare la loro storia, io ne ho incrociate alcune, come quella di Jahin Baig, che cerca di far vivere i suoi bambini in un povero villaggio con questo lavoro pericoloso. Vanno raccontate.

Quando e dove sarà pubblicato il tuo libro?
“No Way Down” sarà pubblicato a fine di giugno in Usa dalla HarperCollins, i Gran Bretagna dalla Viking Penguin, in Olanda e in Brasile. In Italia non ancora, ma mi piacerebbe molto che accadesse presto.


Graham Bowley è nato in Gran Bretagna, in una fattoria delle Midlands vicino a Liecester, nel 1968. E’ stato corrispondente estero del Financial Times e dell’ International Herald Tribune. Ha vissuto in Germania e Belgio ed è sbarcato a New York quattro anni fa per lavorare al New York Times.





sorvolando all'alba le vette della regione del Sunnmøre (Norvegia occidentale)




Il sole che sorge sorvolando alcune delle vette più spettacolari delle montagne nella regione Sunnmøre nella Norvegia occidentale


La montagna "vietata"


In relazione alla dichiarazione del governo relativa agli incidenti avvenuti in montagna negli ultimi giorni, di voler introdurre norme di legge che di fatto renderebbero impossibile la frequentazione della montagna innevata, pubblichiamo la dichiarazione del Presidente Generale del Club Alpino Italiano Annibale Salsa.


Christian Core su "Temujin"



Trekking e Alpinismo in Patagonia



Il monte San Lorenzo, seconda cima delle Ande Patagoniche Australi in una vista dal satellite.

Confortola torna in Himalaya con l'obbiettivo "Lhotse"

"Dopo tutto quello che è successo molti hanno pensato 'Confortola ormai è finito'. Il problema però è che troppa gente non ha niente da fare, e allora scrive e parla. Ma io ho la testa che funziona, ed ora parto per il Lhotse e quando torno voglio scrivere un altro libro sul mio secondo K2". Ne ha per tutti Marco Confortola, che ci ha parlato della sua imminente spedizione al Lhotse che affronterà con uno sherpa del k2, e della nuova autobiografia che scriverà per raccontare come ha vissuto dalla fine di quella tragedia ad oggi e per dire la sua sulle accusa degli ultimi due anni.

Una nuova spedizione al Lhotse...
Parto ad aprile e salgo in cima al Lhotse con Pasang Lama, uno sherpa che c'era anche al K2. Vado da solo perchè non ho trovato nessun compagno che volesse venire: del resto il Gnaro ha già fatto tutto, Roberto Manni è impegnato con la sua attività al rifugio e non vuole più partire per gli 8000. Salgo dall'Everest fino a campo 3 e poi giro verso la cima del Lhotse. Sono già salito fino a 8.500 nel 2006 insieme al Gnaro, l'anno in cui abbiamo fatto anche lo Shisha Pangma e l'Annapurna. Quella volta lui andò in vetta, io tornai indietro perchè avevo freddo ai piedi. C'era anche Cristina Castagna con noi.

Non hai paura a tornare su un ottomila?
No, no. Basta fare le cose fatte bene come sempre. Parto con l'idea di andare in cima, con lo spirito giusto. Voglio vedere come sto adesso su quelle quote e voglio tornare in vetta ad altri ottomila. Scusa, meglio dire "vorrei" tornare in cima che voglio...e poi voglio scrivere un altro libro.

Per parlare di cosa questa volta?
Vorrei scrivere di quello che è successo da dopo il K2. Il mio primo libro si ferma al momento in cui scendo dallo Sperone degli Abruzzi, ma nessuno sa cosa ho passato da quel momento ad oggi. Perchè da allora ad adesso ho praticamente affrontato un altro K2. La convalescenza all'ospedale, la sofferenza che ho provato per mesi, la sedia a rotelle, poi i primi passi...ecco, vorrei scrivere di quello che ho passato io. Si chiamerà qualcosa tipo "Dopo K2. Ricominciamo" o "Ricominciare".

Lo scriverai dopo il Lhotse o ci stai già lavorando?
Ho già in mente tante cose da dire, però sarebbe bello avere in copertina la cima del Lhotse...Anche perchè vorrei dedicare la mia salita a Riccardo Cassin, perchè lui è stato capo di una spedizione di alpinisti molto forti come Messner, Casarotto ed altri, quando ha tentato la sud del Lhotse. E siccome Riccardo era il mio nonno adottivo, sarebbe bellissimo riuscire ad andare in cima e dedicarla a lui.

Hai molti programmi quindi per il futuro?
Sì, ho la testa che funziona. Anzi ti dirò di più, già che al Lhotse, voglio andare a vedere la stazione di Colle Sud che abbiamo montato due anni fa a 8000 metri. E' una nostra creazione, è unica al mondo, io ne sono orgoglioso. Potrei andare a Colle sud per acclimatarmi prima di risalire per la cima.

Come ti stai preparando?
Per ora ho fatto un po' di scialpinismo, corro ogni tanto, ma ancora mi fanno male i piedi. Ma ho ancora tutto febbraio e marzo per prepararmi.

Come ti senti all'idea di tornare in campo nell'alpinismo?
Dopo tutto quello che è successo molti hanno pensato "Confortola ormai è finito". Ma questa nuova avventura è una cosa che faccio per me, non voglio dimostrare niente a nessuno. Anche perchè quando vai con quello spirito rischi troppo. Il problema però è che troppa gente non ha niente da fare, e allora scrive e parla. Se andiamo indietro negli anni vediamo che Juanito Oiarzabal ha perso tutte le dita dei piedi, eppure gli ottomila li ha finiti tutti lo stesso e anzi è andato avanti. Anche Messner, le ha perse tutte le dita, ma dopo ne ha fatte ancora di cime. Quindi se la gente invece di scrivere, si documentasse un po' di più, forse non direbbe cavolate. Poi i giornalisti, non tutti ma tanti, si sono comportati anche male, perchè del soccorso che abbiamo tentato io e Gerald nessuno ha scritto. Infatti sullo Scarpone è uscito un articolo con una mia dichiarazione in cui chiedevo alla gente di smetterla di raccontare balle, quanto meno per rispetto di quelli che son morti.



nuova via per Baù e Della Bordella in Messico

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Si chiama “Fiducia al sentiero” l'ultima impresa del Ragno di Lecco Matteo Della Bordella e del padovano Alessandro Baù, membro del gruppo alpinistico “Chimere Verticali”. E' una via nuova su calcare, con difficoltà fino al 7b+, aperta sulla parete Tatewari del parco de La Huasteca in Messico e poi completamente salita in libera dai due alpinisti.

La parete si trova nella zona di Monterrey, dove i due alpinisti hanno passato 19 intensi giorni di scalata nel periodo natalizio. "Abbiamo aperto la nuova via su una parete di calcare alta 500 metri e larga 1 chilometro - racconta Della Bordella - dove esistevano soltanto 2 vie. Questo ci ha permesso di scegliere una linea estremamente logica ed elegante, che sale nel centro della parete. Per completare le 10 lunghezze della via ci abbiamo messo 3 giorni, più uno per liberarla a comando alternato".

"Proponiamo la difficoltà di 7b+ per il secondo tiro - conclude Della Bordella - e 7b per l’ottavo, un viaggio in placca di 60 metri dove è difficile vedere gli spit e bisogna dare “fiducia al sentiero”. Gli altri tiri sono più facili, ma richiedono comunque tempo per essere saliti perché sono tutti molto lunghi e bisogna piazzare le protezioni".

Sei tiri su dieci sono stati aperti in stile "trad", ossia lo stile tradizionale, quello usato dai pionieri dell'alpinismo prima dell'avvento degli spit e che oggi si "nasconde" dietro a questo inglesismo molto amato nel mondo dei climber. Gli altri tiri sono stati aperti con alcuni spit: secondo quanto riferito da Della Bordella, sulla via ci sono in totale 17 spit.

Nel trad, in buona sostanza, le protezioni messe durante la salita sfruttano le fessure naturali della roccia e vengono rimosse; gli spit, invece, protezioni fissate nella roccia, che viene bucata con il trapano.

"Ho passato l'autunno a scalare solo in trad - spiega l'alpinista lecchese - e questo mi ha dato padronanza nell'uso di friends e nuts. Il mio obiettivo per questa via ma anche per quelle che aprirò in futuro, è cercare di arrampicare il più possibile utilizzando questo tipo di protezioni veloci, perchè significa meno materiale da portarsi dietro, meno tempo in parete e la possibilità di affrontare pareti più impegnative dal punto di vista ambientale".

"Allo stesso tempo, però, non voglio rinunciare alla difficoltà ed alla linea - prosegue Della Bordella -, e in certe situazioni, soprattutto su calcare, è impossibile piazzare protezioni veloci sicure, ci vuole lo spit. Insomma, è un compromesso tra spit e trad, che si sta spostando e si sposterà più verso il trad".




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un grazie a tutti gli utenti ke seguono gli articoli di questo piccolo blogghino di escursionismo montagnino

Hasta la montagna... Siempre!!

Carlitos




Renato Donati in: "Selvaggio Blu"

“ Selvaggio Blu”! Questo nome, che pronunciato fra gli appassionati del trekking “hard”, non ha bisogno di altre spiegazioni, è il nome con il quale viene identificato un percorso escursionistico della durata di sei – sette giorni che si sviluppa sulla costa orientale della Sardegna nella zona compresa farà Santa Maria Navarrese a Sud e Cala Gonone a Nord. Il percorso è stato “inventato” per passare sulle alte scogliere e nelle Codule (Canyon) che le tagliano di tanto in tanto e che caratterizzano questo tratto di costa. E’ stato ricavato in parte sfruttando vecchie tracce di sentieri dei pastori e dei carbonai e in parte appunto “inventato”. Ora forse i pastori usano raramente questi sentieri e così pure i quasi abbandonati Cuili (Ovili) e le Pinnette, che erano le abitazioni del pastore annesso al Cuile; ma le loro tracce sul territorio sono tuttora le uniche tracce che è dato di scorgere in questo lembo di terra e testimoniano di una vita solitaria e per certi aspetti primitiva, per la mancanza di qualsiasi contatto con la realtà esterna per mesi e mesi.

Il trekking ideato da due appassionati, Mario Verin e Peppino Cicalo, è considerato non a torto “il trekking più difficile d’Italia”, non certo per la quota che non supera mai gli 800 m. s.l.m. né per i dislivelli, che pur essendo presenti non sono di tipo “Alpino” e neppure per il clima (a meno cha non si commetta l’errore di andarci dopo Aprile) ma l’assoluta mancanza di acqua lungo tutto il percorso, tranne rarissimi e fortuiti casi sui quali non si può certo fare affidamento, mancanza che rende impossibile l’effettuazione del trekking, a meno che non si provveda a predisporre dei punti di rifornimento lungo il percorso; l’estrema difficoltà di orientamento, i pochi segni sulle rocce sono diligentemente eliminati (dai pastori ?); la necessità di portare nello zaino tutto quanto serve per questo periodo di tempo; le difficoltà di tipo alpinistico lungo il percorso, tratti di paretine con difficoltà fino al IV° (con zaino di 16 – 18 kg. in spalla) e discese in corda doppia anche di 45 m. e in parte strapiombanti e non ultima la necessità di procedere curvi dentro la fitta macchia Mediterranea, rendono questo trekking non certo alla portata di tutti !

Dopo l’esperienza della G.T.S. (grande traversata del Supramonte) compiuta nel ’98, non credevo che avrei trovato questo trekking cosi duro, non solo per l’impegno fisico che pure è notevole, ma anche l’isolamento e direi quasi l’ostilità che si avverte nel territorio, appena mitigata dalle splendide visioni di ciò che la natura è riuscita a creare e che ripagano totalmente l’impegno necessario, rendono questo percorso uno dei punti di arrivo, insieme agli altri grandi trekking nel mondo, di tutti i trekkers che praticano questa attività al massimo livello!

Renato Donati


















e Gnaro intasca l'Aconcagua

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Torna dal Sud America con un nuovo successo, Silvio Mondinelli. L'alpinista bresciano ha salito i 6.962 metri dell'Aconcagua il 22 gennaio, insieme al gruppo di amici con i quali era partito soltanto dieci giorni prima. "E' un allenamento in vista della spedizione alla Nord del GI" aveva detto prima di partire. E se chi ben cominicia è a metà dell'opera, allora quello del Gnaro nazionale promette di essere un anno ricco di emozioni...

"Quasi vorrei dire che non è bello perchè non si prova paura!" scherza Mondinelli, abituato a ben altre altezze, quando gli chiediamo della spedizione appena conclusa che lo ha riportato per la seconda volta, dopo tredici anni, sulla vetta più alta del Sud America. E' salito in cima dopo soli dieci giorni dalla partenza, e sembra tornato da una passeggiata.

Poi, però, ritorna serio. "L'Aconcagua non è una montagna difficile - dice Mondinelli -, ed è un buon banco di prova per chi vuole iniziare ad andare in alta quota. Ma anche lei ha i suoi pericoli. Ho visto tante persone andare via in elicottero perchè soffrivano di congelamenti, traumi, e anche lì accadono tragedie. L'importante, non mi stancherò mai di ripeterlo, è avere rispetto per ogni montagna e umiltà nello scalare".

Le condizioni trovate in Argentina erano perfette. E la salita è andata liscia come l'olio. Con lui, sulla vetta, c'erano gli amici Enrico Dalla Rosa e Corrado Pesci, che sperano in futuro di arrivare a quota ottomila. Ma la montagna era molto affollata.

"Sono andati in cima molti italiani mentre ero laggiù - racconta Mondinelli -. C'era il gruppo di Plamen Shopski, guida bulgara che opera a S. Caterina Valfurva con la Planet Trek, e c'era un ragazzo di Alba. Noi siamo arrivati in cima con dei ragazzi di Genova. Al campo base, in totale, c'erano circa 300 o 400 persone. Sono stato felice di reincontrare tanti amici che avevo conosciuto anni fa, durante la mia prima spedizione all'Aconcagua".

Mondinelli, laggiù, ha anche icontrato i fratelli Benegas, che accompagnano all'Aconcagua l'ultrarunner Diane Van Deren, che vuole siglare il record di velocità nella traversata della montagna. Willie Benegas è stato sull'Aconcagua oltre 20 volte, di cui una in meno di ventiquattr'ore.



cartolina + foto "K2 & Baltoro - Lacedelli, Bonatti e Compagnoni" -1954

Sono state ritrovate in un vecchio manuale sulla caccia al cervo una cartolina e una foto della storica prima scalata al K2 del 31 Luglio 1954.

I due cimeli erano stati spediti ad un medico appassionato di alpinismo e di caccia grossa (nella sua casa erano ospitati 2 orsi siberiani imbalsamati!) e, usati come segnalibro, sono poi stati dimenticati per decenni, fino a quando i libri non sono stati regalati ad un appassionato.

Sul retro della cartolina troviamo le firme dell’intera spedizione, mentre sul retro della fotografia una dedica.







Grazie a Valter Massetti per la gentilissima concessione del materiale


Gianluca Bosetti su "Alla ricerca del punto G" - Orani


Gianluca Bosetti su "Alla ricerca del punto G" - Orani