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Il ferro: antidoto contro il mal di montagna

Il ferro è un elemento importante nella dieta e non può essere tralasciato. E’ stato oggetto di numerosi lavori scientifici nel campo della nutrizione applicata all’esercizio fisico, in quanto risulta fondamentale per la formazione dell’emoglobina, quel pigmento rosso dall’architettura proteica piuttosto complessa che è in grado di trasportare l’ossigeno nel sangue. Gli allenatori hanno contato molto in passato sui periodi trascorsi in altitudine dagli atleti di varie discipline sportive per stimolare la liberazione di eritropoietina, ormone prodotto dal rene utile a far aumentare i globuli rossi nel sangue. A tal proposito molti ricercatori si sono chiesti quale sia l’impatto di tale procedura sul metabolismo del ferro.

E’ sufficiente una riduzione del 10% dell’emoglobina per ridurre una performance di resistenza del 20-25%. Nessun organismo animale è in grado di vivere senza il ferro. I globuli rossi rappresentano il 35-50% del sangue circolante nell’organismo: ogni globulo rosso è costituito per il 25-35% da emoglobina ( 2.7 gr di ferro, pari al 54% del totale). Si trova circa 1 gr di ferro nel sistema reticolo-endoteliale (fegato, milza, midollo osseo), dove il ferro è legato a delle proteine particolari: emosiderina, transferrina e ferritina. Il ferro si trova anche nella mioglobina, una proteina che rappresenta l’analogo muscolare dell’emoglobina. L’assorbimento del ferro è molto variabile e si trova in molti alimenti sotto due forme differenti: eminica, legato all’emoglobina nelle carni animali, e non eminica allo stato di sale nei vegetali.

Si riscontra una forte percentuale di carenza di ferro tra la popolazione sportiva, in particolare tra coloro che praticano gli sport che richiedono resistenza. Alcuni maratoneti americani per esempio, a causa dell’intensa attività fisica, sono soggetti ad un grande consumo di ferro con conseguente diminuzione dello stesso elemento nel corpo. Ciò accade in parte a causa delle cattive abitudini alimentari, che condizionano in senso negativo il metabolismo del ferro, e comporta una riduzione della performance degli atleti. Spesso si prendono in considerazione solo l’esame del ferro serico e dell’emoglobina per diagnosticare uno stato di carenza di ferro, invece è opportuno effettuare anche il dosaggio della ferritina serica, che è in grado di valutare in modo accurato lo stato del ferro di riserva nell’organismo umano (un microgrammo di ferritina per litro di sangue è in grado disporre di 8 mg di ferro). Va segnalato che tale proteina può subire incrementi in occasione di infezioni o di infiammazioni e che soltanto il 10% del ferro è biodisponibile in una dieta idonea.

Nel maschio si trovano circa 50 mg/Kg di peso corporeo di ferro, e 35 mg/Kg nella femmina; il contenuto totale si aggira intorno ai 5 gr. E’ buona cosa quantificare il consumo di ferro di un atleta per calcolare la quantità di ferro richiesta dall’organismo. I maschi sedentari consumano di solito 1 mg di ferro al giorno, mentre le femmine 1.5 mg a causa delle perdite mestruali. Il ferro può essere eliminato con il sudore (perdita poco significativa), con l’allenamento, con l’urina (0.1 mg) o dall’intestino (le perdite fecali sono di circa 0.3 mg al giorno). Una donna fertile può perdere con le mestruazioni da 3 a 60 mg di ferro al mese. Nel corso di un allenamento pesante di tre ore al giorno si possono perdere fino a 1.5 mg di ferro, giusto per fare un esempio. Una perdita di ferro si può verificare attraverso l’emolisi dei globuli rossi, ovvero la loro distruzione (“emolisi da colpo del piede”) a causa di un esercizio fisico pesante che comporta una contrazione muscolare intensa; ciò accade in particolare durante una corsa in discesa. I globuli rossi più vecchi, essendo più rigidi, si rompono con maggior facilità: l’emoglobina che si libera viene captata dall’Aptoglobina, una proteina che riporta il ferro al sistema reticolo-endoteliale. La diminuzione dell’Aptoglobina nel siero testimonia la distruzione di una parte dei globuli rossi e rappresenta un importante marcatore di emolisi: quest’ultima sembra avere scarsa importanza nello sci di fondo e nel body-building, mentre si verifica nel nuoto e nel canottaggio.

Il ferro può essere perso negli atleti che si allenano in modo intenso tramite perdite ematiche a livello dell’apparato gastrointestinale, attraverso l’acidosi e la perossidasi delle membrane cellulari dovuta ai radicali liberi: tutto ciò infatti, comporta una perdita di ferro giornaliera pari ad almeno 1 mg. Si può ipotizzare l’assunzione di una quantità di ferro da assumere ogni giorno pari a 36 mg nell’atleta maschio e a 41 mg nell’atleta femmina. E’ opportuno elaborare un programma di allenamento razionale quale misura preventiva nei confronti delle cosiddette anemie da carenza di ferro. Utile per esempio l’integrazione di ferro di 20-25 mg al giorno per sostenere il metabolismo del ferro.

Gli allenatori hanno contato molto in passato sui periodi trascorsi in altitudine dagli atleti di varie discipline sportive per stimolare la liberazione di eritropoietina, ormone prodotto dal rene utile a far aumentare i globuli rossi nel sangue. A tal proposito molti ricercatori si sono chiesti quale sia l’impatto di tale procedura sul metabolismo del ferro. In effetti un soggiorno di varie settimane ad oltre 1800 metri di quota può portare ad un decremento delle riserve di ferro e perciò, dell’emoglobina. In realtà lo stress dovuto alla carenza di ossigeno in quota ed all’allenamento conducono ad una mobilizzazione delle riserve di ferro nell’organismo umano per produrre nuovi globuli rossi e per far fronte agli aumentati fabbisogni delle cellule, in particolar modo le cellule dei muscoli che incrementano il loro contenuto di mioglobina. Se, infatti, le riserve di ferro sono scarse si assisterà ad una caduta dell’emoglobina, che l’aumento cronico dell’adrenalina in quota può aggravare.

La rivista scientifica americana “High Altitude Medicine & Biology” (Volume 12, numero 3, 2011) ha pubblicato un articolo scritto da alcuni ricercatori inglesi e peruviani che hanno dimostrato con uno studio in doppio cieco in un gruppo di 24 soggetti volontari sani residenti sul livello del mare che la somministrazione di ferro per via endovenosa prima di una rapida salita a Cerro de Pasco (4340 metri) in Peru è in grado di proteggere l’organismo umano dal male acuto di montagna. La disponibilità di ferro ha dimostrato di condizionare in senso positivo la risposta dell’organismo alla carenza di ossigeno, facendo diminuire la pressione dell’arteria polmonare causata dall’alta quota nei soggetti che hanno assunto ferro, rispetto al gruppo di controllo, che hanno ricevuto solo soluzione fisiologica in vena. La somministrazione a scopo profilattico di ferro in vena protegge dal male acuto di montagna soggetti volontari sani che sono saliti velocemente in quota; altra osservazione interessante emersa dallo studio è che variazioni della ferritina serica correlano negativamente con i vari gradi di male acuto di montagna in alta quota. Attenzione al ferro in eccesso che sembra favorire le infezioni e che viene eliminato con difficoltà dall’organismo.




Simone Moro apre un’agenzia di trekking e spedizioni

Si chiama Himalaya Travel e organizza viaggi di ogni tipo. Vacanze, trekking, e soprattutto spedizioni alpinistiche. Dopo vent’anni di esplorazioni nei luoghi più remoti del pianeta, Moro ha deciso di diventare un vero e proprio imprenditore, aprendo nel cuore di Bergamo un’agenzia che metta a disposizione di terzi i suoi contatti e le competenze acquisite. “Molte persone mi chiedevano consiglio sui viaggi in Himalaya. Io ho organizzato 43 spedizioni completamente da solo e ho deciso di offrire questa mia esperienza sul mercato aprendo un’agenzia con delle garanzie uniche, dal mio titolo di guida alpina alla partnership con una delle più grosse agenzie nepalesi di trekking” dice l’alpinista.

Simone, come mai hai deciso di aprire un’agenzia?
Dopo aver realizzato 45 spedizioni di cui 43 completamente organizzate da me nei minimi particolari ed in tutti i continenti, ho visto che me la cavo parecchio bene in queste cose. La rete di connessioni e conoscenze che ho costruito in loco è un patrimonio che mi permette di garantire viaggi sicuri e con interlocutori fidati. Inoltre avere un volto noto ed una storia alle spalle può costituire una garanzia. Troppe volte si viene mandati in giro senza sapere con chi si deve parlare, congratulare e lamentare. Ormai è tutto virtuale, anche le fregature.
Organizzi quindi anche spedizioni, non solo trekking?
Sì, certo. E’ un mercato importante. Il più importante pacchetto di questa primavera e forse dell’anno è una spedizione di grosse dimensioni all’Everest. In base alla mia esperienza, vedrei un logico espandersi di queste richieste soprattutto a livello europeo. Contattare noi è esattamente come contattare un agenzia in Nepal, non c’è intermediazione o cambio di prezzo. I miei soci sono gli stessi che hanno l’agenzia in Nepal, non c’è un doppio ricarico come avviene per tutte le altre agenzie nazionali.

Il mercato però sembra attraversare una fase difficile…
Oggi c’è Internet e dunque per le agenzie i tempi sono più duri. Ma internet mette più in difficoltà i viaggi classici piuttosto che quelli personalizzati e originali come trekking e spedizioni. Poi ci sono alcune barriere di lingua di mezzo e spesso il mondo alpinistico non è un mondo così diffusamente poliglotta. Ci sono però realtà nazionali importanti che chiudono, e questo fa riflettere.

Come riuscire ad emergere dunque?
Bisogna essere strutturati bene per evitare costi fissi salati e bisogna forse essere anche ben connessi per crearsi un pacchetto clienti che vogliano te prima ancora del prezzo più basso. Per quello ci sono i viaggi di gruppo con cassa comune che in Italia sono gestiti da alcuni operatori, ma io sinceramente non partirei mai per un viaggio avventuroso, trekking o altro, senza sapere chi viene con me e chi mi accompagna. Vorrei a questo punto fare una precisazione, forse una delle più importanti e mai menzionate. Nessuno ha mai pensato che per reperire sul territorio nazionale, ossia regolato dal UIAGM, dei clienti da accompagnare o far accompagnare in montagna ove è necessario l’uso di tecniche e materiale alpinistico bisognerebbe essere una Guida Alpina? Se un mio cliente si fa male in Nepal (paese non Uiagm) ma ha siglato il contratto di accompagnamento con me, in Italia (paese regolato da Uiagm), lui può pretendere che colui con cui ha siglato il contratto sia Guida Alpina. Basta interpellare un avvocato e le cose mai dette e sottaciute probabilmente verrebbero fuori nei loro vincoli giuridici. Io sono Guida e dunque so anche di esercitare una prestazione con il 100% del rispetto delle regole.

In Italia com’è la concorrenza?
Ci sono altri amici e colleghi (non Guide ma che a richiesta le utilizzano) come quelli del Nodo Infinito o Focus ma non li vedo come concorrenti, sono amici da anni e dunque conosco la loro serietà. Sono coloro che il mercato lo hanno creato e consolidato dunque sono colleghi più che concorenti . Poi ci sono altre associazioni di Guide che esercitano questo servizio parallelamente a quello di Guida. Insomma tante realtà. Io mi sono strutturato con una partnership nepalese, con uffici, impiegate, una storia lunga alle spalle, licenze d’esercizio, di emissione di biglietteria aerea, di supporto in loco anche con apparati di telefonia satellitare ed internet. Inoltre i viaggi che propongo sono n alcuni casi accompagnati da me personalmente. A livello internazionale ci sono gruppi americani, francesi, tedeschi, spagnoli, britannici. In Internet si trovano ma si parla tramite email e si va per sentito dire, questo non significa che non sono bravi, anzi ne conosco di ottimi, ma tutto nasce virtualmente.

Come orientarsi su internet se sei uno che non conosce nessuno?
Io consiglio sempre di guardare alla storia e all’affidabilità di una persona che deve avere nome e cognome. Andare dalla società x – che magari sta fallendo e prende i tuoi soldi per poi darti un servizio pessimo -, non lo raccomanderei. Il 90% si rivolge alle realtà che si sono affermate con la loro storia ed il lavoro. I colleghi che sono da anni sul mercato e hanno preso tanti clienti con il passaparola. Io spero che 20 anni di spedizioni completamente autoorganizzate e autofinanziate, il titolo di Guida Alpina, due soci nepalesi ed un impiegata che lavora da 25 ani in agenzie viaggi, costituisca una garanzia granitica per me.

Ti sei sempre organizzato le spedizioni da solo perché ti sei trovato male con le agenzie?
La risposta è che non basta essere una bravo capo spedizione o un esperto di logistica per fregiarsi di credibilità massima anche sulla montagna. Io ho sempre cercato e mai trovato uno che sapesse essere sulla cima e al campo base di una montagna con uguale efficienza, forza e carisma. Per questo ho intrapreso la strada di imparare e fare tutto da solo. Ora posso dire come ci si comporta e cosa si deve fare a 8000, al campo base, so gestire un soccorso in elicottero, sono addirittura il pilota, la Guida Alpina. Dunque anche se può apparire immodesto e arrogante, ho messo insieme tutte delle esperienze e le abilità che mi rendono completamente autosufficiente.

C’è differenza tra un’agenzia che organizza solo trekking e una che organizza spedizioni?
Sostanzialmente no, in termini puramente lavorativi. Ma per organizzare una spedizione bisogna capire di cosa si parla e come si vive in alta quota, quali sono le priorità. Un trekking è un escursione dove al massimo ti puoi rompere una gamba. In spedizione vai in posti dove non esiste neppure la possibilità di soccorso, bisogna essere chiari anche con i termini assicurativi, che è un capitolo spesso occultato o evitato dalle agenzie.

Quanto costa in media una spedizione alpinistica in Himalaya?
Una spedizione costa mediamente 8000 euro a persona su un 8000. Eccetto K2 e Everest. Sono costi senza molti costi accessori, telefono satellitare, guida, ossigeno sherpa ecc. Alcuni pensano di spendere meno, ma poi si accorgono che aggiungendo il biglietto aereo internazionale, il cargo, materiale alpinistico specifico, pannelli, generatore ecc, alla fine i costi partono dalla quella cifra. Per quanto riguarda l’Everest da Sud si deve moltiplicare quel costo per tre volte per avere la cifra base minima, sempre senza considerare i costi accessori e di eventuale accompagnamento. L’Everest da nord invece costa il 30% in meno che da sud. Ma sono cifre spannometriche.

È stato difficile aprire un’agenzia come la tua Himalaya Travel?
Sì molto. E unica nel suo team in Italia. Tutte le altre sono italiane che usano altre agenzie nepalesi o sparse per il mondo, ossia sono una sorta di intermediari. In alternativa ce ne sono due in Nepal gestite da italiani che vivono là, ma la mia è l’unica ad avere un referente italiano e nepalese, nello stesso momento, nello stesso ufficio in Italia. Aprire un’agenzia di viaggi con un extracomunitario come sono i nepalesi Beni e Nima ha comportato una serie infinita di carte. Abbiamo dovuto contattare il ministero degli esteri dei due paesi, vedere i diritti di reciprocità, sottostare alle leggi di apertura di un’agenzia di viaggi (complicatissimi e restrittivi), ottenere le licenze di esercizio, ispezione dei locali, omologazioni e approvazioni varie, camere di commercio, notai, licenze per il rilascio di biglietteria aerea internazionale, ed ora abbiamo il problema dei visti di lavoro per i due referenziatissimi nepalesi che ancora non ci sono stati rilasciati dal consolato Italiano in India. La sfiga e l’idiozia tutta italiana è che non abbiamo né ambasciata né consolato vero (solo uno onorario) in Nepal. In quel paese però abbiamo il laboratorio scientifico più alto e prestigioso del mondo e migliaia di italiani ogni anno. Chiudere l’ambasciata nepalese che avevamo è stata la più grande dimostrazione di follia diplomatica. Loro hanno già versato i rispettivi capitali, stanno vivendo in Italia, pagando le tasse come agenzie, sostenendo costi. Ci riempiamo l’Italia di delinquenti che scorazzano senza nessun permesso e facciamo i preziosi con due persone che gestiscono in Nepal un progetto del nostro ministero delle ricerche. Vergognoso. Ma come per le invernali e le scalate che ho fatto, otterrò anche questa volta ciò che voglio e ci spetta.

Nanga Parbat Winter Expedition - Dispatch 4-5


invernale al K2, i russi a 7000

ISLAMABAD, Pakistan — Ha superato quota 7000 metri la spedizione russa che sta tentando in questi giorni di compiere la storica impresa della prima salita invernale del K2. Lo squadrone composto da circa 16 alpinisti procede diviso per gruppi: a metà della settimana scorsa Andrew Mariev e Alex Bolotov hanno attrezzato con le corde fisse la parete sopra campo 2. Nel frattempo un altro team guidato da Nickolay Totmjanin è salito con l’intento di installare campo 3.

Iljas Tukhvatullin, Andrew Mariev e Vadim Popovich la settimana scorsa hanno iniziato a lavorare sulla via il 25 gennaio, raggiunti il giorno dopo da Alex Bolotov e Eugeny Vinogradsky. Secondo quanto riferisce il sito della spedizione russa, hanno portato i materiali necessari alla salita oltre campo 2, dove hanno fatto un campo deposito. Mariev e Bolotov sabato hanno fissato diverse corde fisse sopra il campo 2, al momento in totale 17, programmando per domenica di salire a 7000 metri e cercare il posto adatto alle tende di campo 3.

Per aiutarli il 28 gennaio Nickolay Totmjanin, Valery Shamalo e Vitaly Gorelik sono partiti dal campo base. I tre il giorno dopo erano a campo 2 quindi è probabile che ieri fossero insieme ai compagni di spedizione a campo 3. Ci sono ancora oltre 1600 metri di dislivello tra i russi e la vetta della seconda montagna più elevata del mondo, alta 8611 metri. I prossimi giorni saranno quelli decisivi, ma come sempre molto dipenderà dalla meteorologia e dai famigerati venti di Jet stream.

In attesa del tentativo di vetta gli alpinisti hanno fatto sventolare lo striscione dei XXII Giochi olimpici invernali che si terranno nella città russa di Sochi dal 7 al 23 febbraio 2014. Le Olimpiadi sono infatti molto attese in Russia, dove si conta un unico precedente, quello dei Giochi Olimpici estivi del 1980 di Mosca
.


Nanga Parbat Winter Expedition - Dispatch 1-2-3


Moro, Urubko & Richards il 26 dic. ripartono per il Pakistan. Obbiettivo: invernale del Nanga Parbat



aggiornamenti in seguito


nuova via sulla Nameless Tower nelle Torri del Trango

No Fear su Nameless Tower (Photo Alexander Yurkin Mountain.ru)


ISLAMABAD, Pakistan — Un team di quattro alpinisti russi della Moscow Mountaineering and Climbing Federation ha aperto una nuova via sulle Torri del Trango, sul versante nord ovest della Nameless Tower, una parete a strapiombo e all’ombra. Si chiama “No Fear” ed è stata aperta a fine agosto da Viktor Volodin, Dmitriy Golovchenko, Sergey Nilov e Alexander Yurkin.

Nonostante le difficili condizioni della Nameless Tower la celebre cima di 6.239 metri nel gruppo del Karakorum, il team ha aperto la via sul versante nord ovest, uno dei meno esplorati del picco che si staglia di fronte alla Trango Monk. Su questa parete infatti, esisteva una sola via, “Insumisioa “, salita nel 1995 dal trio basco Antonio Aquerreta, Fermin Izco e Mikel Zabalza: un itinerario di grado VI 6a A3+.

I russi hanno impiegato 10 giorni per completare la linea, con tre campi in parete. Hanno utilizzato le corde fisse e per l’ultimo tratto fino alla cima sono saliti in stile capsula. Il tempo è stato dalla loro parte per i primi 5 giorni, poi gradualmente è peggiorato fino a portare la neve nel giorno della vetta. Hanno trovato una roccia abbastanza compatta con larghi tetti nelle sezioni basse e medie e hanno valutato la via, chiamata “No Fear”, grado 6b+, A3.


tanta voglia di mare per Mario Panzeri dopo il GI

Mario Panzeri sul G1 (Photo courtesy www.gasherbrum2011.it)


ISLAMABAD, Pakistan – “E’ andata bene, sono contento, nell’unico giorno bello siamo riusciti a fare la cima. Ma adesso ne ho piene le scatole di piccozze e sacchi a pelo: ho solo voglia di togliere questi scarponi e di andare al mare!” Così Mario Panzeri esordisce al telefono poche ore dopo aver raggiunto la vetta del Gasherbrum I, 8.068 metri, che il 13 luglio è diventato il 13esimo ottomila della sua carriera.

Dopo la difficile scalata al Kangchenjunga, avvenuta alla fine di maggio, non vedeva l’ora di ripartire per il Karakorum e mettere le mani sul Gasherbrum I. Ora che ha toccato anche quella vetta, finalmente, Mario Panzeri sembra sazio di ottomila, e a sopresa inizia a mostrare perfino un po’ di insofferenza verso neve e ghiaccio.

“Non voglio più vedere scarponi, picche e sacco a pelo fino all’anno prossimo – scherza Panzeri -. Me ne manca solo uno, ma il Dhaulagiri dovrà aspettare la primavera. Sono contento, tanto contento. Ma adesso qui nevica, ho addosso il piumino, fa freddo. Non vedo l’ora di togliermi tutte queste cose, e ritrovare il caldo dell’estate”.

Panzeri ora è già sulla via del rientro verso casa. Il suo arrivo in Italia, da dove era partito il 15 giugno, è previsto per sabato 23 luglio. Una spedizione che in poche settimane ha portato il risultato sperato, nonostante l’acclimatamento del Kangchenjunga fosse già svanito.

“Era passato un mese ma l’acclimatamento l’avevo già perso – racconta Panzeri- La prima volta che sono salito a campo 1 e ho dormito lì mi girava anche un po’ la testa. Non sono stato bene un giorno, ma poi mi son ripreso. Sono salito direttamente a campo 2 e poi ero pronto per la cima, aspettavo solo la finestra”.

“Fino all’altro giorno abbiamo avuto un tempo terribile – dice l’alpinista lecchese -. Faceva un giorno di sole e poi neve e acqua, neve e acqua. Siamo saliti a campo 1 mentre nevicava, a campo 2 anche e a campo 3 ancora peggio. Eravamo tutti bagnati. Il 13 luglio è stato l’unico giorno davvero bello, e siamo andati in cima. Abbiamo trovato molta neve fresca, ma è andata bene. C’erano anche gli austriaci in salita, e c’era Ali, il compagno pakistano perché l’Alberto Magliano e gli altri della spedizione andavano al GII. Ci siamo trovati benissimo, abbiamo messo le corde fisse nei Couloir dei giapponesi e siamo saliti tutti insieme”.

Sul GI erano in salita anche altri italiani: Giuseppe Pompili, Mario Vielmo, Silvano Forgiarini e Adriano dal Cin. Ma il quartetto ha deciso di aspettare un giorno in più a campo 3 e di tentare il 14 luglio, quando il meteo era purtroppo chiamato a peggiorare. Alla fine, sono dovuti rientrare al campo base senza cima, e ora sembra stiano tornando in Italia: il meteo è dato brutto per diversi giorni, e il loro permesso di salita scade sabato 23 luglio.


alpinisti in salita al GI, Panzeri a campo 2

GI Campo 2 - Gerfried Göschl, Louis Rousseau, Gunther Unterberger, Alex Txikon, Juanra Madariaga, José Carlos Tamayo, Stefan Zechmann, Hans, Rick (Photo www.gerfriedgoeschl.at)


ISLAMABAD, Pakistan — E’ in corso il primo tentativo di vetta al Gasherbrum I, il colosso di 8.068 metri in Karakorum. Una quindicina di alpinisti, tra cui Mario Panzeri e il suo portatore d’alta quota, l’Abc team di Gerfried Göschl, Louis Rousseau, Gunther Unterberger e Alex Txikon, e gli italiani Giuseppe Pompili e Adriano dal Cin, sono arrivati ieri a campo 2, a 6350 metri. Oggi il folto gruppo dovrebbe raggiungere campo 3 a 7050 metri di quota.

Secondo quanto riferisce Giuseppe Pompili dal suo sito internet, il gruppo ha lasciato il campo base nella notte tra domenica e lunedì. Sono partiti alle 3 sotto una bufera di neve, poi in circa 9 ore hanno raggiunto il campo 2.

“Adriano e io stiamo bene – scrive Pompili nel suo post di ieri -. Mario Vielmo e Silvano Forgiarini si sono fermati al campo 1 per mal di schiena e raggiungeranno il campo 2 domani. Con noi ci sono anche tutti quelli del gruppo di Gerfried, una giapponese (con ossigeno) e uno sherpa e Mario Panzeri con il suo hap. Domani vedremo se si può raggiungere il campo 3, valanghe permettendo”.

“Come annunciato dal dottor Karl Gabl – gli fa eco Göschl sul suo sito -, il tempo ora è migliorato e dovrebbe consentire la salita. Domani affronteremo il Colouir giapponese, sicuramente il punto chiave del GI, e arriveremo al campo 3 a 7050 metri. Sarà emozionante!”.

Nel frattempo anche sul vicino Broad Peak le spedizioni si stanno muovendo per il tentativo di vetta. Secondo il sito Explorersweb, le previsioni meteo della spedizione del DAV team, ovvero quelle di Karl Gabl, danno la finestra di bel tempo per questa settimana. Cielo sereno e venti deboli sarebbero previsti per mercoledì, quindi domani potrebbe essere anche per loro il giorno della cima.


"Mazeno ridge" - i Baschi ci provano!

ISLAMABAD, Pakistan — La Cresta Mazeno, che dal Mazeno Pass porta sulla vetta del Nanga Parbat. E’ uno degli ultimi grandi problemi alpinistici irrisolti, è stata tentata più volte da grandi scalatori, ma ancora nessuno è riuscito a salirla. Ci proveranno ora due campioni baschi, Alberto Zerain e Juan Carlos Arrieta, partiti pochi giorni fa per il Karakorum per un’impresa che, dovesse riuscire, entrerebbe nella storia.

La coppia si era unita l’anno scorso per tentare (inutilmente) la salita al famigerato Hornbein Couloir sul versante nord dell’Everest. Da una grande impresa all’altra, i due spostano quest’anno il mirino dall’Himalaya al Karakorum, per cimentarsi in un’altra straordinaria avventura alpinistica, finora, nonostante illustri tentativi, non ancora riuscita a nessuno.

La Mazeno è una cresta affilata che si estende per 10 chilometri a sud-ovest del Nanga Parbat, con un’altitudine media di 7000 metri e una mezza dozzina di vette superiori a quell’altezza, tra cui il Mazeno Peak: dal Mazeno Pass porta sulla vetta del Nanga Parbat. Alcuni degli alpinisti più celebri al mondo ci hanno provato in passato: da Erhard Loretan a Doug Scott, da Voytek Kurtyka a Jean Troillet, tutti rimasti a bocca asciutta.

Zerain e Arrieta sono partiti domenica per il Pakistan. I due hanno in programma di acclimatarsi sulla normale, la via Kinshofer, che sale sul versante Diamir. Secondo quanto dice Zerain sul suo sito, se riuscissero a salire in vetta, oltre ad acclimatarsi, avrebbe l’occasione di vedere dall’altro le difficoltà della via che poi vorrebbero provare: perlustrare il terreno per evitare sorprese una volta che tenteranno la Mazeno. La salita lungo la cresta, secondo le previsioni, dovrebbe durare 5 giorni e 4 notti, considerando che nella discesa i due baschi seguiranno la via normale.


trek to Trango Tower BC/ K2 BC/ Gondogoro La/ Charakusa Valley in 2003


GLI SPETTACOLARII - Trango tower - 6286 mt.


Guglia di granito situato sul lato nord del ghiacciaio Baltoro, nel Baltistan, un distretto della regione di Gilgit-Baltistan in Pakistan(ex Northern Areas). Fa parte del Muztagh Baltoro, un sottoinsieme del Karakorum. La Torre offre una delle più grandi falesie impegnative del mondo.


La tragica notte del K2: retroscena svelati

Confortola sul K2 nel 2008

Confortola sul K2 nel 2008

BERGAMO — Sono passati 3 anni, ma lo sgomento, la paura e la voglia di polemica sono vive più che mai. Torna alla ribalta in questi giorni la tragedia del K2 accaduta la notte del 1 agosto 2008, nella quale morirono 11 alpinisti per il crollo di due seracchi ad oltre 8000 metri di quota. A portarla di nuovo sotto i riflettori, con nuove verità svelate e uno strascico di risentimenti, sono il libro “No way down” di Graham Bowley, uscito ieri in Italia, e la prima videointervista a Pemba Gyalje, lo sherpa che lassù salvò molte vite tra cui quella dell’alpinista valtellinese Marco Confortola.

Bowley, giornalista del New York Times, ha raccolto le interviste di tutti i sopravvissuti alla tragedia del K2 e anche i racconti di chi, a casa, aspettava notizie e sperava nel loro rientro. Ha girato il mondo per mesi, sentendo tutte le voci possibili e ricostruendo la catena di fatti sulla quale tutt’oggi aleggiano dubbi e misteri, dovuti alle contraddizioni dei racconti dei protagonisti e alle loro oggettive difficoltà di ricordare quanto effettivamente accadde in quella convulsa notte ad oltre ottomila metri.

Il libro, che ha sbancato in America, è finalmente disponibile in italiano grazie al volume edito da Mondadori, che contiene rivelazioni inaspettate e a tratti scottanti su una tragedia che ha coinvolto tutti, non solo gli appassionati di alpinismo. Alcune riguardano proprio Confortola che, come ricorderete, si salvò per miracolo, anche grazie all’intervento dello sherpa Pemba, ma ci rimise le dita dei piedi per gravi congelamenti.

Nel suo libro “Giorni di ghiaccio”, Confortola racconta della vetta raggiunta sul far della sera, della discesa interrotta dal buio, del crollo del seracco, della notte all’addiaccio che ha portato al delirio molti compagni tra cui l’amico irlandese Gerard McDonnell che ha visto sparire nella nebbia, e della cordata di coreani che ha tentato disperatamente di salvare, della discesa e dell’intervento di Pemba.

Nel volume di Bowley c’è anche un’altra versione dei fatti. I parenti di McDonnell, il compagno con cui Confortola stava scendendo dalla cima, sostengono che l’alpinista valtellinese non abbia tentato soccorsi ai coreani ma abbia lasciato Gerard e i coreani per continuare la difficile discesa.

“Lascio al lettori il compito di decidere a che cosa credere – ha dichiarato Bowley, intervistato da diversi mezzi di stampa su questo tipo di polemiche -. Io ho voluto riportare tutte le versioni dei fatti, per dovere di cronaca”.

Nei giorni scorsi, sulla vicenda, è uscita anche un’intervista a Pemba Gyalje, lo sherpa-eroe che tra campo 4 e il Collo di Bottiglia quella notte salvò molte vite. L’intervista è stata girata parecchio tempo fa da Simone Moro, Emilio Previtali, Hervé Barmasse e Tamara Lunger a Kathmandu, ma non fu mai pubblicata. Ora appare su Sportweek.it, in concomitanza con la notizia dell’uscita del libro americano.

“Se dicessi tutto quello che ho visto sulla montagna – dice Pemba – le famiglie delle vittime e anche quelle dei sopravvissuti soffrirebbero, e creerei troppi problemi. Sappiamo bene come la gente diventi egoista vicino alla vetta, non sarebbe buono dire tutto. Ho speso 65 giorni con quelle persone al campo base. Io ascolto, guardo e capisco le personalità. Nella maggioranza c’era carenza di esperienza, per una salita così dura”.

“A bassa altitudine si ragionava bene – dice ancora Pemba, che non si risparmia e fa nomi e cognomi -, ma poi in alto sono diventati più matti e hanno detto cose diverse. Chiaro, è un problema di altitudine, ma lassù non basta essere forti scalatori e sciatori, serve conoscere l’alta quota. I due pakistani di Marco erano equipaggiati male, avevano freddo e non riuscivano a lavorare. Il salvataggio? Lui era a faccia in giu nella neve fresca, l’ho trascinato”.

Nuovi dubbi, quindi, insinuazioni, rivelazioni in parte già note e in parte no. Tessere di un mosaico che forse è impossibile da ricomporre, perchè la realtà vissuta nell’aria sottile è più soggettiva che oggettiva. Ma resta l’amaro in bocca all’alpinista valtellinese, stufo di rivangare quei momenti e di ribadire la sua buona fede.

“Mi sembra solo di riaprire una ferita chiusa – ha tagliato corto Confortola – e non ne vedo il senso. E’ finita, basta. Io l’ho scalato il K2. Quella sera dal bivacco ho chiamato Agostino da Polenza, che è uno dei pochi alpinisti italiani ad aver salito il K2, e lui ha detto una cosa sacrosanta, che quando si bivacca così in alto, senza ossigeno, non è così semplice ricordarsi effettivamente tutto, qualcuno si ricorda più una cosa o più un’altra. Lui mi ha detto: Marco, ricordati solo una cosa quando scendi domani mattina: scalda mani e piedi, sempre, altrimenti finisci come Benoit. Ma io mi ricordo bene molte cose”.

“Io accetto le critiche da chi ha salito il K2 – prosegue Confortola -. Agostino, Messner, Gnaro, Kammerlander, Blanc. Gli altri è meglio che facciano silenzio. Poi è ovvio, la moglie di uno o la sorella dell’altro non lo possono sapere cosa è successo, non faranno altro che dire che il loro caro era un alpinista preparato. E’ normale. Io e Gerard eravamo molto amici. Nei suoi diari parlava del suo amico italiano che ero io, e quando eravamo al base lo aiutavo a raccogliere i ferri per fare gli scacciapensieri. Eravamo legati. Questo è quello che so io. E che io abbandoni un’amico in difficoltà, mi dispiace ma non esiste”.

“Bisognerebbe comunque avere un po’ di tatto – conclude l’alpinista -, lì sono morte 11 persone. Io ho ringraziato Pemba per avermi salvato la vita, è scritto anche nel mio libro, ricordo benissimo anche la festa che abbiamo fatto insieme dopo la spedizione. Dopo i giornalisti hanno voglia di vendere, di fare polemica, lo capisco. Però ora basta, è ora di voltar pagina”.




Latok I, cresta Nord: partita la sfida “impossibile” di Salvaterra e Sarchi

Latok I: a destra la cresta Nord (Photo courtesy blackdiamondequipment.com)

Latok I: a destra la cresta Nord

SKARDU, Pakistan — Una cresta inviolata per una montagna che nella storia è stata salita soltanto una volta: il Latok I, 7.145 metri, in Pakistan. E’ una “missione impossibile” quella intrapresa dal trentino Ermanno Salvaterra con il lombardo Andrea Sarchi, Cege Ravaschietto, Marco Majori e Bruno Mottini. Ma l’entusiasmo, le doti tecniche e la determinazione del team, che accosta giovani agonisti accanto a “vecchie volpi” dell’alpinismo, potrebbero far accadere il miracolo.

Il team italiano si trova già in Pakistan, diretto al campo base della montagna insieme all’ufficiale di collegamento Ahsan Ali e alla carovana dei portatori capeggiata dalla guida Hassan. Il loro obiettivo è la lunga e complicata cresta Nord del Latok I, che troneggia nel cuore del Karakorum sul ghiacciaio Choktoi. La prima salita è dei giapponesi nel 1979 dal versante Sud. E finora è l’unica mai realizzata su questa montagna.

La cresta Nord è stata tentata decine di volte, da personaggi tra cui figurano Doug Scott, Simon Yates, Catherine Destivelle, i fratelli Benegas, Colin Haley. Ma nessuno è riuscito ad arrivare in vetta. Trentatrè anni fa, l’epico tentativo di Jim Donini, Michael Kennedy, Jeff e George Lowe, che nel luglio del 1978 salirono quell’infinita cresta in stile alpino, rimanendo 26 giorni in parete e resistendo a a bufere senza precedenti. Si ritirarono a quota 7000 metri, una manciata di tiri dalla vetta: nessuno riuscì più a raggiungere nemmeno quel punto.

Secondo le descrizioni fornite dagli stessi protagonisti della spedizione, si tratta di 2500 metri di pura scalata, dove ogni tiro è impegnativo e le difficoltà non mollano mai fra strapiombi, pareti verticali e funghi di neve. Senza contare il maltempo, che sembra insistere su quel versante in modo particolarmente agguerrito. Condizioni quasi patagoniche, insomma.

Andrea Sarchi, promotore di questa ambiziosa spedizione, sa di andare incontro ad una salita che definire dura è quasi un eufemismo. Ma ha scelto con cura i componenti della spedizione ed è convinto che qualche possibilità ci sia. Il gruppo punta ad uno stile simile a quello di Donini e compagni: salire leggeri, ma con il necessario per bivaccare in parete anche diversi giorni, in caso di brutto tempo.

Fiato sospeso, insomma. La sfida italiana dell’estate sta per cominciare.


Venere Peak 6300 mt. (Barmasse, Panzeri e Bernasconi)


Scrive Hervè Barmasse nel suo sito: “Questa salita, avvenuta lo scorso anno durante una spedizione organizzata da Agostino Dapolenza sul versante Cinese del Gasherbrum 1, era stata per Daniele Bernasconi, Mario Panzeri ed il sottoscritto, uno dei momenti più belli di una sfortunata spedizione che nei preoblemi logistici e organizzativi si era arenata nel bel mezzo della Shaksgam Valley

GI & GII in una botta sola


suggested by Rain Rongpuk


Simone Moro, Denis Urubko & Cory Richards - GII invernale 2011 - official video


quaranta secondi sulla vetta del GII


thanx to Rain Rongpuk


straordinario! e' vetta per Moro, Urubko e Richards


ISLAMABAD, Pakistan — E’ vetta, signore e signori. Un risultato talmente straordinario che è quasi difficile da credere. Eppure è così: Simone Moro e Denis Urubko entrano di nuovo nella storia dell’alpinismo firmando la prima invernale al Gasherbrum II, 8035 metri insieme a Cory Richards. E’ la prima montagna dell’intera catena del Karakorum ad essere stata salita d’inverno.

La vetta è stata toccata alle 11.28 del mattino, ora pakistana.

L’annuncio è arrivato da Barbara Zwerger, la moglie di Simone Moro, che ha ricevuto la telefonata dalla cima della montagna nelle prime ore di questa mattina. Dopodichè, ha riportato la notizia sul sito dell’alpinista bergamasco, regalando un tuffo al cuore a tutti gli appassionati che questa mattina cercavano aggiornamenti sul tentativo di vetta.

Il messaggio recita così: “Questa mattina all’alba i nostri tre eroi ce l’hanno fatta. Hanno raggiunto la vetta del Gasherbrum II in invernale, portando a casa un risultato storico al primo tentativo! Simone ha chiamato la moglie Barbara dalla vetta, ora stanno scendendo al campo base. Attendiamo le loro testimonianze nelle prossime ore”.

“Mi ha chiamata alle 8.40 ora italiana – racconta la moglie di Moro -. Si trovavano sul traverso sotto la cima. Era a dir poco raggiante. Stavano già scendendo da un’oretta, mi ha detto che è stata durissima ma che tutti e tre stavano bene e ce l’avevano fatta. Era felicissimo. Anche io lo sono. E’ così dura dover aspettare tanti giorni prima che torni in Italia”.

In questo momento i tre alpinisti stanno quindi scendendo verso il campo base, sono attese nelle prossime ore le loro prime dichiarazioni.

“Dovrebbero arrivare a campo 3 nelle prossime ore – prosegue Barbara Zwerger – ma spero che riescano a scendere oltre, anche se sono molto stanchi, perchè Karl Gabl prevede vento a partire dal pomeriggio. Domani, a 6.900 metri dove hanno la tenda, dovrebbero esserci raffiche a 70 chilometri orari e neve”.

Grandi capacità, grande tenacia e anche grande tempismo, dunque. Moro e compagni hanno seguito una perfetta strategia di acclimatamento e di salita, che in meno di un mese dall’arrivo al campo base li ha portati a centrare un obiettivo che segna una svolta nella storia dell’alpinismo in Karakorum. Dove mai nessuno era riuscito a salire un ottomila d’inverno. Loro hanno saputo resistere a temperature di 46° sottozero, e gestire con una precisione da manuale le brevi finestre di bel tempo concesse dal meteo, centrando la vetta nelle 12 ore di bel tempo previste per stamattina.

Con il Makalu il 9 febbraio del 2009 e il GII oggi, 2 febbraio 2011, Moro e Urubko firmano una doppietta di prime invernali senza precedenti. Per Moro è la terza prima invernale compreso lo Shisha Pangma: prima di lui solo gente del calibro di Jerzy Kukuczka e Krzysztof Wielicki, entrambi polacchi, è riuscita a fare tanto. Per Urubko, 14 ottomila senza ossigeno e vie nuove ad alta difficoltà tracciate sui versanti più duri dei giganti himalayani, si tratta della seconda prima invernale. Per Richards, è il battesimo delle invernali e il secondo ottomila della carriera: lui è il primo americano a salire un ottomila d’inverno.

E’ proprio a Wielicki che abbiamo chiesto che cosa significa scalare d’inverno su quelle vette, avendo a che fare con temperature vicine ai 50 gradi sottozero, con la carenza d’ossigeno, con la completa solitudine ai campi base.

Caratteristiche che rendono davvero fuori dal comune l’impresa compiuta da Moro e compagni, in condizioni che è difficile anche solo immaginare. Ma loro hanno saputo come gestirle. E hanno di nuovo scritto una pagina di storia indimenticabile, che rilancia l’alpinismo italiano, ed europeo, ai massimi livelli mai conosciuti nell’epoca moderna.