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La tragica notte del K2: retroscena svelati

Confortola sul K2 nel 2008

Confortola sul K2 nel 2008

BERGAMO — Sono passati 3 anni, ma lo sgomento, la paura e la voglia di polemica sono vive più che mai. Torna alla ribalta in questi giorni la tragedia del K2 accaduta la notte del 1 agosto 2008, nella quale morirono 11 alpinisti per il crollo di due seracchi ad oltre 8000 metri di quota. A portarla di nuovo sotto i riflettori, con nuove verità svelate e uno strascico di risentimenti, sono il libro “No way down” di Graham Bowley, uscito ieri in Italia, e la prima videointervista a Pemba Gyalje, lo sherpa che lassù salvò molte vite tra cui quella dell’alpinista valtellinese Marco Confortola.

Bowley, giornalista del New York Times, ha raccolto le interviste di tutti i sopravvissuti alla tragedia del K2 e anche i racconti di chi, a casa, aspettava notizie e sperava nel loro rientro. Ha girato il mondo per mesi, sentendo tutte le voci possibili e ricostruendo la catena di fatti sulla quale tutt’oggi aleggiano dubbi e misteri, dovuti alle contraddizioni dei racconti dei protagonisti e alle loro oggettive difficoltà di ricordare quanto effettivamente accadde in quella convulsa notte ad oltre ottomila metri.

Il libro, che ha sbancato in America, è finalmente disponibile in italiano grazie al volume edito da Mondadori, che contiene rivelazioni inaspettate e a tratti scottanti su una tragedia che ha coinvolto tutti, non solo gli appassionati di alpinismo. Alcune riguardano proprio Confortola che, come ricorderete, si salvò per miracolo, anche grazie all’intervento dello sherpa Pemba, ma ci rimise le dita dei piedi per gravi congelamenti.

Nel suo libro “Giorni di ghiaccio”, Confortola racconta della vetta raggiunta sul far della sera, della discesa interrotta dal buio, del crollo del seracco, della notte all’addiaccio che ha portato al delirio molti compagni tra cui l’amico irlandese Gerard McDonnell che ha visto sparire nella nebbia, e della cordata di coreani che ha tentato disperatamente di salvare, della discesa e dell’intervento di Pemba.

Nel volume di Bowley c’è anche un’altra versione dei fatti. I parenti di McDonnell, il compagno con cui Confortola stava scendendo dalla cima, sostengono che l’alpinista valtellinese non abbia tentato soccorsi ai coreani ma abbia lasciato Gerard e i coreani per continuare la difficile discesa.

“Lascio al lettori il compito di decidere a che cosa credere – ha dichiarato Bowley, intervistato da diversi mezzi di stampa su questo tipo di polemiche -. Io ho voluto riportare tutte le versioni dei fatti, per dovere di cronaca”.

Nei giorni scorsi, sulla vicenda, è uscita anche un’intervista a Pemba Gyalje, lo sherpa-eroe che tra campo 4 e il Collo di Bottiglia quella notte salvò molte vite. L’intervista è stata girata parecchio tempo fa da Simone Moro, Emilio Previtali, Hervé Barmasse e Tamara Lunger a Kathmandu, ma non fu mai pubblicata. Ora appare su Sportweek.it, in concomitanza con la notizia dell’uscita del libro americano.

“Se dicessi tutto quello che ho visto sulla montagna – dice Pemba – le famiglie delle vittime e anche quelle dei sopravvissuti soffrirebbero, e creerei troppi problemi. Sappiamo bene come la gente diventi egoista vicino alla vetta, non sarebbe buono dire tutto. Ho speso 65 giorni con quelle persone al campo base. Io ascolto, guardo e capisco le personalità. Nella maggioranza c’era carenza di esperienza, per una salita così dura”.

“A bassa altitudine si ragionava bene – dice ancora Pemba, che non si risparmia e fa nomi e cognomi -, ma poi in alto sono diventati più matti e hanno detto cose diverse. Chiaro, è un problema di altitudine, ma lassù non basta essere forti scalatori e sciatori, serve conoscere l’alta quota. I due pakistani di Marco erano equipaggiati male, avevano freddo e non riuscivano a lavorare. Il salvataggio? Lui era a faccia in giu nella neve fresca, l’ho trascinato”.

Nuovi dubbi, quindi, insinuazioni, rivelazioni in parte già note e in parte no. Tessere di un mosaico che forse è impossibile da ricomporre, perchè la realtà vissuta nell’aria sottile è più soggettiva che oggettiva. Ma resta l’amaro in bocca all’alpinista valtellinese, stufo di rivangare quei momenti e di ribadire la sua buona fede.

“Mi sembra solo di riaprire una ferita chiusa – ha tagliato corto Confortola – e non ne vedo il senso. E’ finita, basta. Io l’ho scalato il K2. Quella sera dal bivacco ho chiamato Agostino da Polenza, che è uno dei pochi alpinisti italiani ad aver salito il K2, e lui ha detto una cosa sacrosanta, che quando si bivacca così in alto, senza ossigeno, non è così semplice ricordarsi effettivamente tutto, qualcuno si ricorda più una cosa o più un’altra. Lui mi ha detto: Marco, ricordati solo una cosa quando scendi domani mattina: scalda mani e piedi, sempre, altrimenti finisci come Benoit. Ma io mi ricordo bene molte cose”.

“Io accetto le critiche da chi ha salito il K2 – prosegue Confortola -. Agostino, Messner, Gnaro, Kammerlander, Blanc. Gli altri è meglio che facciano silenzio. Poi è ovvio, la moglie di uno o la sorella dell’altro non lo possono sapere cosa è successo, non faranno altro che dire che il loro caro era un alpinista preparato. E’ normale. Io e Gerard eravamo molto amici. Nei suoi diari parlava del suo amico italiano che ero io, e quando eravamo al base lo aiutavo a raccogliere i ferri per fare gli scacciapensieri. Eravamo legati. Questo è quello che so io. E che io abbandoni un’amico in difficoltà, mi dispiace ma non esiste”.

“Bisognerebbe comunque avere un po’ di tatto – conclude l’alpinista -, lì sono morte 11 persone. Io ho ringraziato Pemba per avermi salvato la vita, è scritto anche nel mio libro, ricordo benissimo anche la festa che abbiamo fatto insieme dopo la spedizione. Dopo i giornalisti hanno voglia di vendere, di fare polemica, lo capisco. Però ora basta, è ora di voltar pagina”.




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